“Che cosa hanno in comune un'università
non statale e un doposcuola in quartieri degradati? Un centro fitness e
un'organizzazione sportiva per disabili? Un pub e una mensa per i poveri? Una
clinica religiosa e un'associazione di volontariato sanitario?” Nulla, se non
che possono confluire nel non profit e beneficiare delle provvidenze pubbliche,
sgravi e sussidi.
Faccio qualcosa del “genere turpe”, si
giustifica l’autore, ma a fini di verità. E anche di efficienza, va detto: il
terzo settore dei servizi pubblici, la novità degli ultimi vent’anni, ha creato
lavoro e attività a basso costo, molto più contenuto di quanto al Funzione
Pubblica spendeva per gli stessi servizi – ha “salvato” l’Italia, si può dire –
ma si presta a pratiche truffaldine. Sono queste che Moro denuncia - genus turpe usava dire gli scritti che
criticavano ciò che rappresentavano.
Giovanni Moro, il sociologo politico che
non le manda a dire, uno dei pochi ancora liberi, che si tratti del Vaticano,
del Pci, della Dc, delle Br e della morte del padre, spiega che molta spesa
sociale per il non profit va ad attività commerciali. Lo dice dall’interno,
essendo impegnato nel volontariato, e quindi a buon diritto.
Lo studio Moro pone idealmente sotto il
segno di Italo Mancini, un prete che si voleva presbitero, come a riaffermare il
suo non clericalismo, e insegnò da laico all’università di Urbino.
Giovanni Moro, Contro il non
profit, Laterza, pp. 181 € 12
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