È
passato in sordina il trentacinquesimo della decapitazione della Banca
d’Italia, il 24 marzo 1989, da parte di Andreotti, per mano dei giudici
Alibrandi e Gallucci. Dopo un anno di intimidazioni: coi messi di Andreotti,
Stammati e Evangelisti, in Banca d’Italia, e convocazioni e interrogatori di
Baffi e Sarcinelli a palazzo di Giustizia. Per “concorso in truffa a danno
dello Stato”. Alibrandi era un militante missino, Gallucci un Dc
dichiaratamente di destra, fedele di Andreotti.
L’imputazione,
con tipica ironia andreottiana, era di aver finanziato quindici anni prima un
investimento poi rilevatosi insostenibile della Sir, la società chimica di
Rovelli. Un finanziamento che lo stesso Andreotti aveva voluto da ministro, per
la chimica “dei pareri di conformità”, cioè finanziata con denaro pubblico. Anche
gli interrogatori di Gallucci erano dello stesso tenore. Sempre il giudice
ritornava allo stesso punto, noterà Baffi nel diario pubblicato postumo: perché
tanta larghezza con Rovelli e tanta severità con i Caltagirone? La colpa di Sarcinelli
e Baffi era di essersi opposti al salvataggio del gruppo Caltagirone. Alla
“sistemazione”, dice Baffi.
I
Caltagirone erano costruttori. Con l’ampio credito attingibile all’Iccri o
Italcasse, l’istituto centrale - romano,
andreottiano - delle casse di risparmio, costruivano palazzi da rivendere a
caro prezzo agli enti previdenziali, tutti di osservanza andreottiana. Da
qualche anno però non rientravano più dal debito, alcune centinaia di miliardi
avendo stornato tra i beni personali o in finanziamenti alla corrente Dc di
Andreotti.
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