Cattolico – È denominazione in disuso, dopo essere stata
inalberata con orgoglio e anzi ostentata negli anni 1950, anche 1960. Di
FrançoisMauriac come già di Bernanos, o di Graham Greene, Flannery O’Connor. In
Italia invece restava confinata a Betocchi – Luzi, che ora vi si ascrive, ne
rifuggiva, o Cristina Campo. La qualifica è in desuetudine dal Concilio, che
lungi dall’avvicinare il mondo, lo ha allontanato: essere “cattolico” in generale
non si dice più.
Croce – È Marx. Non lo è naturalmente, ma lo è stato,
più e meglio di Labriola. Bobbio lo ha ricordato, più di una volta.
Croce è
il nume del liberalismo italiano, ma lo è stato tardi. Si rilegge (viene
rispoposto) per gli scritti di storia, brillanti d’intelligenza e aneddotica,
ma non per gli scritti filosofici, soprattutto non i primi, anteriori alla
polemica con lo “Stato etico” di Gentile.
Claudio
Tuozzolo, studioso della trasposizione dello hegelismo in Italia, ci ha scritto
sopra nel 2008 un saggio appuntito, “Marx possibile. Benedetto Croce teorico
marxista 1896-97”. Più sul Marx crociano che su Croce marxista, ma ciò non
toglie che al suo debutto a trent’anni nella pubblicistica filosofica, dopo l’apprendistato
in Germania, Croce si può dire marxista. Con una certa coerenza anche, in tema
di materialismo storico, che non è metafisico, e dei concetti chiave di valore,
lavoro, e critica (scientificità) – seguendo le argomentazioni di Tuozzolo, non
pretestuose, si resta folgorati. Anche
nella pubblicistica, Croce pendeva, oggi diremmo, a sinistra, verso Michels e
Sorel, cioè si collocava in un ambito di letture e discussioni socialista. Con
una tarda deriva in guerra, nel 1915 Croce aveva cinquant’anni, verso la realpolitik, compreso, prima del ripudio
anti-Gentile, lo Stato-potenza del Treitschke, per esempio nelle “Pagine sulla
guerra”.
Nelle “Note
autobiografiche” aggiunte nel 1934 al “Contributo alla critica di me stesso” del 1915, Croce stesso lo
dice: gli sconvolgimenti seguiti alla guerra, cioè le rivoluzioni, lo portarono
da un lato a rifare la storia dell’Italia unita, con un insieme incredibilmente
prolifico: “Storia d’Italia”, “Storia d’Europa”, “”Una famiglia di patrioti”, “Uomini
e cose della vecchia Italia””Vite di avventura, di fede, di passione”, e i tantissimi
saggi inutili sulle mediocrità letterarie della “Nuova Italia”. Contro l’“ignoranza
delle nuove generazioni”, ma di più contro “l’obbrobrio, lo spregio e lo
scherno”, che “per calcolata azione partigiana venivano gettati sulla modesta e
onesta e solida opera dei nostri padri e nostra, onde l’Italia prese il suo
posto nella moderna cultura e nella politica internazionale”. Per analoghi motivi,
anche se Croce non lo dice, ma comunque in parallelo, andò la “curvatura”
filosofica. Non più professorale e astrattamente speculativa, ma “subserviente alla
storia”. E in questa prospettiva solo liberale: non c’è altra filosofia
possibile.
In altra
chiave, a proposito del “trascendente” non più possibile, sempre nella nota del
1934 Croce ha spiegato il suo marxismo e l’abiura. Intorno ai trent’anni ebbe
una sorta di seconda crisi religiosa, scrive: “Il trascendente mi si ripresentò
in veste terrena e laica, che ne celava l’interna contradizione con un’apparenza
storicistica di carattere filosofico e dialettico; e prese forma di una generosa
radicale liberazione dal male, dall’ingiustizia e dall’irrazionalità mercé di
un uovo mondo da costruire che sarebbe stato l’unico, il vero «regno della
libertà», dopo tanto secolare affanno di servitù”. Ma non durò: “Le dottrine
del Marx non ressero alla critica coscienziosa e spregiudicata a cui fui a
passo a passo condotto e costretto; e quel suo regno egualitario o comunistico
mi si dimostrò incapace di realtà storica, e quasi meno fondato, direi, della «Città
del sole»”. Della bonaccia al cuore della tempesta, o intermezzo, che
Campanella diceva pausa o prodromo “alla fine del mondo che profetava imminente”:
il Marx gli si rivelava più apocalittico.
Ancora
in guerra, ricorda, Croce si ritenne impegnato “principalmente su due punti”. Il
secondo era stato opporsi all’“odio e disprezzo del nemico”, alla costruzione
del nemico. “Il primo punto era la difesa dell’autorità e forza dello Stato,
contro le ideologie democratiche, e della politica in quanto politica contro la
rettorica umanitaria”. Le rivoluzioni gli fecero cambiare idea, il sovietismo
che non nomina e “il cosiddetto fascismo”. Si diede allora il compito di contestare “i
cosiddetti «stati totalitari»”, e cioè “l’asservimento dell’arte, del pensiero,
della religione, del costume alla politica, la quale poi, in questa spasmodica
sua prepotenza, invece di potenziarsi, perde la sua ragione di vita e la sua
forza”.
Ma nella
stessa abbondante e appassionata sua pubblicistica degli ultimi suoi trent’anni
si trova molto liberalismo, e nessuna apologia dell’individuo.
Dante - Era un prete albigese a Firenze, in incognito,
nonché affiliato all’Ordine del Tempio. Così lo qualifica Eugène Aroux, che il ghibellino Dante
voleva anche repubblicano e socialista. In un pamphlet del 1856, che le Edizioni Arktos di Carmagnola hanno
pubblicato non tradotto nel 1981. Una “Clef de la Comédie anti-catholique de
Dante Alighieri, pastore della chiesa albigese nella città di Firenze,
affiliato al’Ordine del Tempio”.Una “chiave” che dà anche “la spiegazione del
linguaggio simbolico dei fedeli d’amore, nelle composizioni liriche, i romanzi
e le epopee cavalleresche dei trovatori”.
Ipocondria – Bandita dai dizionari psichiatrici e medici,
è la normalità della narrativa (anche della poesia) italiana, europea, occidentale.
Non tutta, ma al novanta per cento sicuro. Anche se nell’accezione poco scientifica
di malinconia: la riflessione malinconica su sue stessi, la narrazione delle proprie
minute evenienze.
L’etimologia
è peraltro legata alla malinconia: ipocondria è, anatomicamente, la parte dell’addome
che sta sotto le costole, e racchiude il fegato, la cistifellea, la milza, le
visceri, la sorgente della “bile nera”. Ma non la narrazione vi era legata. Fino
all’insorgere, negli epigoni flaubertiani, dello psicologismo, la tentazione e
poi la pretesa di costruire personaggi psicologicamente coerenti e autodeterminati.
E man mano - accorciando il raggio e restringendo la prospettiva, dopo l’irrompere
dell’io nella narrazione senza vergogna - all’io stesso, in una sorta di
onanismo.
Pedofilia – Dopo il diario di Conh-Bendit quando era
maestro in Germania e amava i bambini, vanno le memorie erotiche più o meno
vere di donne in età, a volte insegnanti, del loro bisogno quasi compulsivo di
farsi i ragazzi. Necessariamente puberi, ma non di tanto, li vogliono “innocenti”.
Non come lettura d’evasione ma d’impegno. Viene il dubbio che la pedofilia resti
sotto tiro, nella liberazione sessuale generale, perché ci sono di mezzo i
preti non sposati, i preti cattolici – con le cause milionarie in America
(molto “reale” negli Usa è opera degli avvocati a percentuale). Per
anticlericalismo insomma. Anche tra i “ragazzi di vita” di Pasolini, che ormai
vano per i settanta, si moltiplicano a Monteverde, nei gruppi di lettura, nelle
auto edizioni e al caffè, i ricordi affettuosi. Anche di cose che non ci sono
state – piace pensare Pasolini orco, come si flagella nel postumo “Petrolio”,
incontinente, insaziato, prepotente.
letterautore@antiit.eu
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