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mercoledì 5 marzo 2014

Secondi pensieri - 167

zeulig

Heidegger – Fu un poeta, secondo i due numeri storici di “aut aut” 234 e 235, fine 1989 e inizio 1990. E più secondo la lettera dell’11 marzo 1964 al colloquio su “Pensiero e linguaggio non oggettivanti nella teologia moderna”, tenuto all’università Usa di Drew (ora in apertura alla raccolta “Segnavia”). “Come esempio di un pensiero e di un dire non oggettivanti per eccellenza può servire la poesia”, esordisce Heidegger, e pronto richiama Rilke – “il canto è esistenza”, Gesang ist Dasein. “L’essere può mostrarsi in diverse modalità”, ma quella poetica ne è una sorta di radice comune: il dire poetico è diverso, è “poetante”, fattivo. “Il dire poetante è «esistenza». Questa parola «esistenza» è qui usata nel senso tramandato dalla metafisica. Significa presenza.  Il dire poetante è presenziare presso… e per il dio”.
In realtà, la rivista somma il rapporto di Heidegger con René Char, che fu attivo nella Resistenza (e non con Celan?),  le sue letture di Hebel, Rilke, Hölderlin, Trakl, e la lettera-saggio “Che cos’è la poesia”. Questa soprattutto nel corpo a corpo di Ferraris con Derrida, heideggeriano beffardo. Con innumerevoli declinazioni dell’“istrice”, il porcospino, il piccolo roditore che si vuole, potendosi appiattire, ovunque – e anche un po’ imbroglione nella favola di Grimm “La lepre e l’istrice”.
Ma, poi, anche lì si vira al politico, direttamente, senza ironie. “Perdoni la trivialità della domanda”, dice da ultimo il dottorando Ferraris a Derrida, “che del resto mi sembra inevitabile in un ragionamento sopra Heidegger e la poesia: non è convenzionale e insomma squallida la figura di uno Heidegger che, deluso e battuto dalla politica fa vela verso la poetica, trovando nell’Arcadia il porto sicuro?” Sì, è la risposta di Derrida – al modo di Derrida (“sì e no, e chissaché”): “Fa vela, come dice lei, verso una poetica che è anche un attracco, un porto d’attracco politico lo Hölderlin del Reno e di Germania”.Cioè: Heidegger si fa poeta in chiave nazionalistica, torcendovi Hölderlin – che però, ha notato Gadamer (“I sentieri di Heidegger”), “sciolse la lingua” al filosofo..

Pochi ricordano che il Filosofo fu poeta in senso proprio, pubblicò curate raccolte, a partire da Lo splendore morente, esordio crepuscolare.Weg und Waage,\Steg und Sage\finden sich in einen Gang”. È Palazzeschi? “Geh und trage\ Fehl und Frage\deinen einen Pfad entlang”. Bang, bang è l’esperienza del pensare, ingegnosa, di classici trochei, con rime, paronomasie e allitterazioni. Intraducibile, irriducibile – l’essere non c’è eccetto Heidegger, è questa l’ontologia fondamentale? “Passo e pesa\sasso e ascesa\si ri-trovano allo stesso viaggio.\Va e palesa\Squasso e intesa\seguitando il tuo passaggio”, oscenità solitaria: va e ritorna, lungo l’unico fico lingam.
Il “pensiero poetante” è da professor Pascoli devoto, che ha avuto anche lui vita segreta, sebbene da scapolo, o di uno Stil Novo che fosse carnale, appassionato e lirico.

Incomunicabilità - Non c’è dal momento che è materia di discorso. Ci sono “cose” incomunicabili.

Masse – Procurarsi il pane distruggendo la panetteria: tale è il criterio d’individuazione-azione che Ortega y Gasset ne enuclea nella “Ribellione delle masse”. Reazionario. Però?

Paradosso – “Non capisco quelli che si rifugiano nella realtà perché hanno paura di affrontare la droga”: il paradosso di Tom Waits è inattaccabile da ogni punto di vista. Sintattico, logico e, chissà,  etico. Il paradosso non è più paradossale: nell’età della globalizzazione (intercultura) e della comunicazione breve, brevissima, e interattiva è la forma assertiva per eccellenza. Incontestabile.
Ci sono fasi storiche in cui la conoscenza sopravvive, dissimulando.

Ragione – La natura è ragionevole – ha delle leggi. L’uomo no, è imprevedibile. E dunque l’uomo è innaturale?

Saggezza - È la stupidità dei più - umana? Non l’incapacità ma al contrario, l’arroganza, la pretesa di sapere. Quando si sa poco o nulla - giusto il giorno, la notte, la nascita, la morte.

Stupidità – Si declina in molti modi, dal candore all’orgoglio.
È indefinibile? Jerphagnon, lo studioso di sant’Agostino, la dice “polimorfa e onnipresente”, e propone di non definirla, scusandosi col dirla “naturale”. Che è però un pleonasmo, tutto è naturale  se esiste: il filosofo è turbato dal suo carattere ubiquo, fin nei fondamenti della saggezza.

Suicidio - San Tommaso Moro ne fa l’esito dell’Utopia qualora uno diventi “nocivo a se stesso e agli altri”. In Inghilterra, che allora ne deteneva il record, Montesquieu nota che il suicidio era più frequente “verso l’inizio e la fine dell’inverno, per un vento di Nord-Est che rende il cielo nero e affligge i corpi più robusti”. In linea col quadro di Morselli a Durkheim: i maschi si uccidono più delle femmine, gli alti più dei bassi, e di più in Europa centrale, dove ci sono meno pazzi - “invece che predisporre al suicidio, l’idiozia ne è un preservativo”. Il professore delimitò in Europa un rettangolo del suicidio, tra il 47° e il 57° di latitudine e il 20° e il 40° di longitudine, incluse alcune zone limitrofe, Nord Italia, Belgio e Sud inglese. Resta problematico il quando. Montaigne censura Cassio e Bruto, che “finirono di perdere i resti della libertà romana, di cui erano protettori, per la precipitazione e l’imprudenza con cui si uccisero prima che fosse opportuno”.

Le pene sono sempre state severe per i suicidi, benché ovviamente morti. Il reverendo Donne ricorda come le vergini di Mileto, martiri volontarie, fossero esposte nude. Tarquinio Prisco volle i suicidi esposti agli uccelli e altre bestie. Per Severo la pena arriva in forma di festa, placata.

E sarà vero che la morte è ricorrente. All’anagrafe arriva una volta sola nella vita – o per una volta è accertata, per incidente o sfinimento. Ma ognuno muore in effetti più volte, incluso in forma di suicidio, del rifiuto degli altri per rifiuto di sé, per cattiveria, sfida, follia, e per tara biologica, perché no. Gli altri, i fortunati, forse non hanno nulla da perdere.

Vendetta – Non vuole essere equanime, e anzi si realizza nell’eccesso, meglio nella radicalità, la cancellazione dell’offesa attraverso la cancellazione dell’offensore.
Nasce dal sentimento del sé offeso. Etnico-tribale nel vecchio “delitto d’onore” e nelle faide, rancoroso in quello personale. Nutrito come pilastro della saldezza dell’io, ma indenne all’autocritica. Per questo non onorevole, in tutte le forme, compresa Medea naturalmente, benché maga.
La magnanimità è autocritica: non dimentica le offese ricevute ma non trascura quelle che ha arrecato. Ma è un non fare. La vendetta opera all’opposto: non si fa un torto di sé, e anticipa, innesca, provoca delle risposte. Assolvendosi col diritto-dovere di ristabilire un equilibrio oltraggiato, ma in realtà dissolvendolo.

È spesso caratteriale – si sarebbe detto per influsso degli “elementi”. Non si innesta su un’offesa, né vi si commisura, ma è un modo d’essere, di pensarsi: attivo. Violento. È però anche etnica, uno dei “caratteri originari”, anche se per stratificazioni storiche, cultuali,  “culturali” e non naturali. O può la natura dividersi in magnanima e vendicativa?

zeulig@antiit.eu

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