È la
storia di “Flavio Mitridate”, l’ebreo siciliano convertito “Guglielmo Raimondo Moncada”, nome del suo nobile
padrino di battesimo, nato ad Agrigento – o a Caltabellotta - a metà Quattrocento. Figlio di rabbino, si convertì presto e nel 1477 era già a
Roma, affascinando per le sue conoscenze cabbalitsiche e delle lingue semitiche
il papa Sisto IV e il futuro Innocenzo VII, e a Urbino Federico di Montefeltro.
Nel 1482 risulta professore di teologia alla Sapienza. Due anni dopo era a
Colonia, maestro di Johannes Reuchlin, e a Lovanio. Invitato nel 1486 da
Giovanni Pico della Mirandola, fu a Perugia e a Fratta, maestro di ebraico e
caldaico, e di cabala. Non propriamente un filibustiere, e anzi un uomo di
cultura.
Andrea
Camilleri, Inseguendo un’ombra, Sellerio, pp. 210 € 14
Camilleri
fa scorrere e leggere la storia, ma scrive trascurato, perfino scurrile. E la
infioretta di suo: di Flavio Mitridate fa un imbroglione violento, cabalista
scettico, pedofilo e stupratore (“il suo dolore è il mio piacere” è sua temurah preferita), ladro, traditore di
tutti, assassino, ogni insulto va bene. Lasciando nel lettore, poiché il personaggio è storico e noto, il gusto acido del falso. A rischio di antisemitismo. Non ce
n’è motivo con Camilleri – che
peraltro può contare su molti scrittori ebrei che si pregiano di demistificare falsi
profeti, anche non convertiti (nonché sulla voga di considerare ogni ebreo
cristiano un dissimulatore a fini di guadagno). Ma ce n’è a ogni pagina. E non c’è altra ragione per
questa resurrezione, se non un succès de
scandale: l’antisemitismo è – era – sempre a fin di bene, e Camilleri non
se ne fa mancare nessuno degli stereotipi. Sicilianamente, anche i terricoli
non sono da meno, non c’è giorno che non facciano un pogrom nelle giudecche dei
loro paesi. Ma l’ebreo, seppure tarato dalla conversione, è sempre più cattivo
del priore o vescovo più cattivo.
A
metà narrazione Camilleri interpola un paio di pagine di Sciascia sullo stesso soggetto,
un quasi inedito (“La faccia ferina dell’Umanesimo”) che gli ha dato l’idea del
racconto, ed è tutta un’altra storia.
È
anche la quinta o sesta prova narrativa di Camilleri su traccia e indicazione
di un forte editor, Eileen Romano,
redattore e editore insieme. Un caso ancora più singolare che l’antisemitismo a
fin di bene. Corrente nel mondo anglosassone, basti ricordare i contributi di
Susannah Clapp sui testi di Chatwin, o di Ezra Pound su Joyce e l’“Ulisse”, il
ruolo dell’editor in Italia è nuovo e
ancora marginale (l’unico precedente presumibile è il “Gomorra” di Saviano).
Per Camilleri è invece centrale, che prima di Eileen Romano ha avuto un altro
forte editor, Elvira Sellerio. È
l’aspetto più apprezzabile della storia.
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