martedì 11 marzo 2014

Simenon dumasiano - ma sessanta pagine sono meglio di seicento

Singolare coincidenza, di rileggere due libri dello steso autore sullo stesso argomento in sequenza. Singolare “prova bianco”, di un testo di seicento dense pagine confrontato con uno che racconta le stesse cose trent’anni più tardi in sessanta pagine spaziate. Quello scritto, questo dettato. Quello pieno di figure e punti di vista, questo diritto al punto. E tanto più vero, accattivante, memorabile: la “Lettera a mia madre” non è la decima parte di questo “Pedigree”, e tuttavia dice tanto di più. Il tema è il rapporto di Simenon con la madre, una persona infelice che rende infelici tutti.
Questo “Pedigree” è anche di lunghezza insolita per Simenon, scrittore sveltissimo. Messo giù in due grossi tomi durante la guerra, nel 1941 e nel 1942. Senza condiscendenza per i tedeschi occupanti – Simenon sarà sospetto di collaborazionismo. E per i pregiudizi, contro l’ebreo, contro il fiammingo, contro il ricco, contro il povero: i pregiudizi sono rappresentati vivi, e poi tranquillamente cassati. È anche un racconto storico o di costume: pullula, attorno all’amore-odio per la madre, di personaggi e situazioni non memorabili, nonni, zie, zii, cugine, cugini, messe., sacrestie, collegi, preti, amoretti in vacanza, ragazzine che sanno tutto e fanno tutto. Una rappresentazione minuta della “gente minuta” che Simenon dirà nella “Lettera alla madre” essere la sua, quella nella quale si riconosce, con orgoglio.
Lo stesso Simenon dirà il lungo racconto non simenoniano, nella prefazione all’edizione 1957: “«Pedigree» non è stato scritto nello stesso modo, è nelle stesse circostanze, né nelle stesse intenzioni degli altri miei romanzi, ed è senza dubbio per questo che costituisce un isolotto nella mia produzione”. È invece una forte prova narrativa, la prova del nove che Simenon si legge perché sa scrivere. Nel solco di Dumas – di cui si rappresenta cultore a 17 anni in un dei ritratti più gustosi, il libraio che odiava il suo giovane commesso perché s’intendeva di libri.   
Georges Simenon, Pedigree

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