Lettura
obbligata per riconoscimenti molteplici, etnici, onomastici, toponomastici, di
comuni origini - a parte il parroco in bicicletta per le vie di Paracorio, una specie di don Matteo: impossibile, Paracorio è su un costone. Più volte interrotta per la ripetizione, l’insistenza, il verismo
quasi in berlina, tra la “roba” e le disgrazie. Ripresa per la forza narrativa di cui Gangemi, malgrado tutto, dispone. Che fa
vivere la storia senza il pregiudizio – l’odio-di-sé meridionale, la borghesia,
il dannato della terra, le invidie sociali. Ma le nascite, le morti, le
malattie, e il raccolto che è sempre insoddisfacente, la vita si svolge per
lunghe pagine come un grumo indissolubile, nero di affanni, disgrazie,
cattiverie.
L’editore
lo vuole un racconto “del fascismo e delle colonie, delle guerre mondiali,
della ‘ndrangheta delle origini, del passaggio epocale verso il progresso”, che
però c’è poco o nulla. È la storia di una famiglia come luogo chiuso, con poche,
casuali aperture all’esterno, quasi tutte malevoli. Eccetto che per gli irregolari:
emigranti, rivoltosi, malandrini. Che potrebbe essere – lo era – un dato
culturale, ma neanche questo taglio adotta il narratore. Il pattern
è l’aneddotica minima della memorialistica compiaciuta di paese, dei vecchi di
paese o dei nullafacenti incontinenti, in un pulviscolo di nomi, parentele, punti
di riferimento che si perdono. Un esercizio di bravura, se si vuole, di scrittura, irretito dal suo soggetto. Anche se alla fine il
tributo s’impone, emozionato, alla memoria - indipendentemente dall'economia del racconto, per fatto personale. Seppure recente, e già
anestetizzata, quasi folklore: nel 1962, quando Giuseppe muore, sulla cui vita
la storia si è dipanata, la barbarie di fatto impera, nei rapporti sociali, d’affari,
familiari, che il ritmo elegiaco della narrazione trascura.
È un libro del buon ricordo, della vita ricca e povera, un secolo fa, senza strade, senza luce, elettrica e spesso nemmeno dell’animo, delle balze dell’Aspromonte sulla valle delle Saline, ora piana di Gioia Tauro. Luogo degli uliveti giganti, anch’essi senza luce – Gangemi ne ha scritto qui, involontariamente?, infine il poema. Tra le molte pagine verghiane, di maniera, tranches de vie baluginano che si ricordano. Dei modi di essere, degli usi, dei caratteri. In una certa misura anche dei linguaggi, sebbene appiattiti dalla sociologia del riscatto. Dei silenzi per esempio, dei figli nei confronti dei padri, dei padri. Delle passioni irragionevoli. Delle collere. Dei presentimenti. Che sempre sono tristi. Con gli incredibili snobismi delle società chiuse, le gradazioni infinite di onorabilità, non più quarti ma decimi e centesimi, e corrispondentemente di rivalsa. Sul nulla, il tanfo di stantio. E l’impossibile scambio, che sarebbe rigenerante, con chi si sottrae o si rifiuta.
Mimmo
Gangemi, La signora di Ellis Island, Einaudi, pp. 625 € 19,50È un libro del buon ricordo, della vita ricca e povera, un secolo fa, senza strade, senza luce, elettrica e spesso nemmeno dell’animo, delle balze dell’Aspromonte sulla valle delle Saline, ora piana di Gioia Tauro. Luogo degli uliveti giganti, anch’essi senza luce – Gangemi ne ha scritto qui, involontariamente?, infine il poema. Tra le molte pagine verghiane, di maniera, tranches de vie baluginano che si ricordano. Dei modi di essere, degli usi, dei caratteri. In una certa misura anche dei linguaggi, sebbene appiattiti dalla sociologia del riscatto. Dei silenzi per esempio, dei figli nei confronti dei padri, dei padri. Delle passioni irragionevoli. Delle collere. Dei presentimenti. Che sempre sono tristi. Con gli incredibili snobismi delle società chiuse, le gradazioni infinite di onorabilità, non più quarti ma decimi e centesimi, e corrispondentemente di rivalsa. Sul nulla, il tanfo di stantio. E l’impossibile scambio, che sarebbe rigenerante, con chi si sottrae o si rifiuta.
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