“Nessuna
proposizione può essere contro la Fede se prima non è dimostrata essere falsa”.
Una tale professione di fede, neppure i papi attuali, Benedetto e Francesco,
che vi si sono aggirati intorno, sono riusciti a quagliarla. E tuttavia non ha
salvato Galileo da vent’anni di processi alle intenzioni, angherie, soprusi, e
dieci di reclusione in casa. Qui, agli inizi del “processo” nel 1615, Galileo
si dice vittima “d’ingannevoli apparenze, di paralogismi e di fallacie”. Ma era
vittima della Chiesa, del papa, di un santo.
Questa
edizione riunisce le quattro “lettere copernicane” che Galileo scrisse tra il
1613 e il 1615, a ecclesiastici e alla granduchessa di Firenze, madre del suo
protettore, il granduca Cosimo II, per
disinnescare la canea montante dei mediocri. Rifacendosi ai padri della Chiesa,
di cui mostra una conoscenza approfondita,
con lunghe citazioni in latino. Specie a sant’Agostino, contrario a
un’interpretazione alla lettera delle Scritture: chi “volesse fermarsi sempre
nel nudo senso literale, potrebbe, errando esso, far apparire nelle Scritture non
solo contradizioni e proposizioni lontane dal vero, ma gravi eresie e bestemmie ancora”. E così
seguitando, con argomentazioni convincenti, Galileo oltre che scienziato è
ottimo scrittore - il più grande scrittore della letteratura italiana
di ogni secolo” volle dirlo Calvino. Con un’ermeneutica biblica più assennata teologicamente di
quella dei teologi suoi nemici.
Alla
granduchessa come agli altri corrispondenti, Galileo espone un assioma
semplice, che si reputa moderno: la fede è una cosa, la scienza è un’altra. Da
fedele credente: “Io non dubito punto che dove gli umani discorsi non possono
arrivare, e che di esse (credenze astronomiche, n.d.r.) per conseguenza non si
può avere scienza, ma solamente opinione
e fede, piamente convenga conformarsi assolutamente col puro senso della
Scrittura”. Una dottrina incontestabile, che Galileo, solitamente sobrio,
ribadisce alla granduchessa per una cinquantina di pagine. Senza riuscire e
prevenire, dopo diciott’anni di persecuzioni, la condanna. Che non ebbe nessuna
ragione, anche presso il suo primo giudice Roberto Bellarmino, se non la volontà del
papa Urbano VIII, il
letterato fiorentino Maffeo Barberini, prima amico e poi nemico di Galileo –
Redondi dirà, “Galileo eretico”, per proteggerlo dall’accusa più grave di
eresia, ma è un’ipotesi.
Nelle
note alla “Vita di Galileo”, in una delle ultime, spiegando reiteratamente che
il suo dramma non è contro la Chiesa, Brecht scrive: “La scienza moderna è una
figlia legittima della Chiesa, che si è emancipata e ribellata alla madre”. Le
“Lettere copernicane” si rileggono a fatica, più che con fastidio, per
l’irrilevanza oggi della questione – allora la pretestuosità, l’insolenza. Si
apprezza la fede sincera di Galileo – non furbo, non accomodante, non
opportunista, come si fa sospettare, dagli stessi suoi sostenitori. La sua
cultura – Galileo lo si vorrebbe laicamente una sorta di bricoleur, sia
pure geniale, ma è uomo dotto. Dei suoi nemici invece non resta
traccia, specie nella materia: cosa volevano, cosa opponevano? La storia di
Giosuè, per il quale “Dio fermò il sole”. E sembra impossibile – Giosuè s’intende
da tempo figura mitica, contestandosene l’esistenza, prima ancora che le imprese solari.
Il
processo del 1616 fu tenuto al Sant’Uffizio da un gesuita candidato autorevole
al soglio e poi santo, Roberto Bellarmino, che era stato al centro anche della
condanna di Giordano Bruno. Si fa valere che Bellarmino era amico considerato
di Galileo, ma e la dottrina? Non
l’eliocentrismo ma la metodologia, di cui Galileo invece nella lunga lettera
alla granduchessa madre è così esperto? La condanna del 1933 alla prigionia in casa, senza possibilità di parlare
con amici o discepoli, fu voluta da un papa che si pregiava di magia e fu simoniaco,
Urbano VIII Barberini, di cui due dei nipoti, giovani cardinali, erano membri
del collegio giudicante. Il processo, la condanna e l’abiura di Galileo non
sono affari seri. Ancora l’altra domenica il cardinale Ravasi sul “Sole 24 Ore”
ne faceva grande caso ma non è così – se non per il peccato della Chiesa, di stupidità. Non era
questione di fede - la corrispondenza di Copernico con le Scritture non è
questione di fede - ma di invidia e gretta ignoranza.
Questa
edizione ricalca quella che Giovanni Gentile approntò e pubblicò nel 1943, compresa
la sua nota editoriale. Gentile, contro quella che sarà l’opinione di Brecht,
vuole Galileo “di pensiero indomito”. Non è del tutto vero, alla fine Galileo
abiurò, seppure dopo diciott’anni. Ma è vero, come dice il filosofo, che a
Galileo importano “non tanto la distruzione di due diversi domini, dogmatico e
razionale, e la dimostrazione delle loro irriducibili differenze (al che sarebbe
occorsa una dottrina che in Galileo manca); quando piuttosto la dimostrazione
dei diritti della libera ricerca scientifica”. Purché si elimini la parentesi:
Galileo in realtà è più intelligente e persuasivo dei suoi nemici teologi, da
buon credente, per sana e robusta costituzione morale e culturale, se non
propriamente teologica.
Galileo
Galilei, Lettera a Cristina di Svezia sui rapporti tra l’autorità della
Scrittura e la libertà della scienza, La Vita Felice, pp. 109 € 10,50
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