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giovedì 10 aprile 2014

Il mondo com'è (169)

astolfo

Balcanizzazione – È storicamente la deflagrazione del’impero turco, dapprima con la guerra russo-turca, poi con l’Italia, infine nella grande guerra. Completata nel 1918 dallo sfaldamento dell’impero austro-ungarico. È ritornata dopo il crollo del Muro. In Jugoslavia. Nei contenziosi tra la Grecia e i suoi vicini al Nord. E ora in Ucraina. Con Moldova, Trasnistria etc. in lista d’attesa. Mentre la destra vincente in Ungheria vuole riaprire la questione della Transilvania rumena.
Si dice, sempre storicamente, espressione dell’immaturità politica delle popolazioni dell’area. Che sono in prevalenza slave. Mentre in realtà, in ogni crisi, fin dall’implosione dell’impero turco, e poi di quello austro-ungarico, è possibile tracciare pressioni interessate e forti dall’esterno. Nei trattati di Versailles ormai agli atti della storia. Nel post-Muro all’evidenza dei fatti. La spinta eversiva  stata dapprima europea, ora è congiunta Europa-Usa.
Essendo le popolazioni coinvolte in prevalenza slave, la balcanizzazione è da intendere più come un fattore di contenimento o aggressione a quella parte d’Europa che l’esito di un deficit di cultura politica e della convivenza. Giocata anche su fattori interslavi – la Polonia contro la Russia, per esempio. Ma sempre a fini imperialistici.

Compromesso storico – Scalfari, sostenitore del compromesso storico a partire dal 1978, tra i più espliciti , ne fa in “Racconto autobiografico”, pp.1111-112, questa analisi. Moro e Berlinguer erano d’accordo su una Grande Riforma, e sul fatto che essa “non si poteva fare senza lo sforzo congiunto dei due partiti popolari, la Dc e il Pci”. Moro, però, “rifiutò sempre la definizione di compromesso storico”, perché il suo progetto era all’opposto di quello di Berlinguer.
In effetti, al compromesso storico credettero soprattutto i neofiti – tra essi lo stesso Scalfari, che giunse, da leader laico, a celebrare come reali solo le due “subculure” confessionale e comunista. E dopo il 1989 il troncone principale, ma sbandato, del Pci. I democristiani, Moro come Andreotti (usò i governi della solidarietà nazionale, cioè i voti del Pci, per sconfiggere alle elezioni per la prima volta il Pci), e poi De Mita, e i postdemocristiani, fino a Renzi, non ci hanno mai creduto e non ci credono: niente compartecipazione.

Grande Riforma – Ne parla Scalfari in “Racconto autobiografico” come del disegno congiunto di Moro e Berlinguer. Che però, dice caratteristicamente, senza paura cioè della contraddizione, avevano idee opposte.
S’intende per Grande Riforma il progetto di riformare la costituzione per il rafforzamento dell’esecutivo e la semplificazione del legislativo. Che normalmente viene attribuito a Gelli, per squalificarlo. In questo senso Gustavo Zagrebelsky caratterizza su “Repubblica”, di cui è ora primo commentatore, la riforma che Renzi sta tentando. Come un disegno oscuro.
Questo era il progetto anche di Moro, dice Scalfari nelle memorie. Propendendo ora per Moro e non per Berlinguer. Ma è utile rileggerlo: “Moro pensava alla rifondazione dello Stato, Berlinguer alla costruzione di una società socialista”. Non era un divergenza da poco: “Moro rifiutò sempre la definizione di compromesso storico perché, al di là delle fumisterie con le quali gli esegeti berlingueriani cercavano di spiegarne il contenuto, aveva ben compreso di che cosa si trattasse”.  Impostare, invece della democrazia liberale, “una struttura organica nella quale il pluralismo degli interessi e delle opinioni fosse accolto e recepito orizzontalmente, dando luogo a sintesi via via successive che dal sociale arrivassero al politico, dalle associazioni e istituzioni di base a quelle di vertice”.
Può darsi che questa fosse l’opinione di Moro sulla Grande Riforma di Berlinguer. È infatti una fumisteria più di quelle degli “esegeti” – ammesso che non sia opera di Scalfari resipiscente invece che di Moro. Ma il seguito dell’analisi di Scalfari non è fumoso, delineando uno Stato corporativo, che in Italia vuole dire fascista – senza dirlo. Alla base  “istanze territoriali e istanze professionali”, che i partiti interpretano,  ma non più come forze contrapposte, incarnazioni di idee o ideologie, bensì come produttori di consenso:  organismi di canalizzazione dell’opinione “verso la nuova struttura compromissoria o consociativa che dir si voglia”. Senza più “la distinzione dei ruoli tra maggioranza e opposizione”. Uno Stato che è “una rete a maglie fitte di comitati  partecipati, idi istanze decisionali collettive all’interno delle quali i confini siano ricomposti, di sintesi in sintesi, fino a una generale programmazione dei bisogni e delle risorse”. Partecipati, non partecipanti. Scalfari lo vuole “un modello molto diverso da quello sovietico”. – cioè fascista?

Novecento – Si può dire il secolo della mobilitazione – della mobilitazione totale. Quindi le sue macerie sono quelle della mobilitazione: le due guerre mondiali, il fascismo, il nazismo, il comunismo, e la guerra fredda, anch’essa molto costrittiva - violenta anche se non cruenta.

Razzismo – Torna biologico col dna? Elaborato sulle classificazioni di Linneo nel 1735, utilizzato un secolo dopo a sostegno del colonialismo, e poi dell’antisemitismo, rafforzato con una lettura ristretta del darwinismo e dell’eugenetica, infine condannato dalla Chiesa romana, collassato col nazismo, e dopo la guerra dimostrato scientificamente inattendibile dal genetista Luigi Luca Cavalli Sforza. Il razzismo biologico torna oggi a essere avocato quale segno di distinzione. Di continuità genetica, e quindi razziale: nel segno della “purezza” e aristocrazia del sangue. Sottintendendo la superiorità, il secondo connotato del razzismo biologico
In Israele stesso, il razzismo biologico è ritenuto fondativo più della stessa religione. Una delle prime ricerche genetiche, una ventina d’anni fa, dell’Istituto Technion di Haifa, coordinata da Karl Skorecki, ha tracciato con la Bibbia e la genetica una continuità costante  e indelebile nei Coen (Cohen, Kahan, Khan, cioè “sacerdote”), sia all’Est (nel gruppo askenazita) che all’Ovest (nel gruppo sefardita o spagnolo). Una “scoperta” che venne portata a riprova della compattezza religiosa e sociale della “razza ebraica” nei millenni e nelle traversie della diaspora, ma di fondamento biologico.

Stalinismo – “Ha da venì vaffone” non è una battuta storica, alla Peppone:  è stata ed è una divisa. “Sono stato stalinista anch’io?” si chiedeva Italo Calvino al suo primo articolo su “la Repubblica”, 16-17 dicembre 1979 (ora in “Un eremita a Parigi”), e si rispondeva: sì, ma in certo modo. Che spiegava con un esempio: “Io ero amico di Franco Venturi, che di cose successe laggiù ne sapeva parecchie e me le raccontava con tutto il suo sarcasmo illuminista. Non gli credevo? Ma certo che gli credevo. Solo che pensavo che io essendo comunista dovevo vedere quei fatti in un’altra prospettiva dalla sua, in un altro bilancio del positivo e negativo”.
Stalin naturalmente era quello di Stalingrado, il liberatore. Mentre dei processi e le epurazioni si sapeva, ma nel quadro della propaganda politica antisovietica. Ma la stessa predisposizione resta ora che il sovietismo si è cancellato, insieme con la propaganda cotraria – “un’altra prospettiva”. Non in sede storica (ma anche in sede storica: Stalin non è più la “bestia” su cui Kruscev tentò di scaricare i fallimenti). Nell’atteggiamento mentale, del “popolo diverso. Benché sia ridotto a gruppo di potere, e solo intellettuale.

astolfo@antiit.eu

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