Balcanizzazione
– È
storicamente la deflagrazione del’impero turco, dapprima con la guerra russo-turca,
poi con l’Italia, infine nella grande guerra. Completata nel 1918 dallo
sfaldamento dell’impero austro-ungarico. È ritornata dopo il crollo del Muro. In
Jugoslavia. Nei contenziosi tra la Grecia e i suoi vicini al Nord. E ora in
Ucraina. Con Moldova, Trasnistria etc. in lista d’attesa. Mentre la destra
vincente in Ungheria vuole riaprire la questione della Transilvania rumena.
Si dice, sempre storicamente, espressione
dell’immaturità politica delle popolazioni dell’area. Che sono in prevalenza
slave. Mentre in realtà, in ogni crisi, fin dall’implosione dell’impero turco,
e poi di quello austro-ungarico, è possibile tracciare pressioni interessate e
forti dall’esterno. Nei trattati di Versailles ormai agli atti della storia. Nel
post-Muro all’evidenza dei fatti. La spinta eversiva stata dapprima europea, ora è congiunta Europa-Usa.
Essendo le popolazioni coinvolte in
prevalenza slave, la balcanizzazione è da intendere più come un fattore di contenimento
o aggressione a quella parte d’Europa che l’esito di un deficit di cultura
politica e della convivenza. Giocata anche su fattori interslavi – la Polonia
contro la Russia, per esempio. Ma sempre a fini imperialistici.
Compromesso
storico – Scalfari,
sostenitore del compromesso storico a partire dal 1978, tra i più espliciti ,
ne fa in “Racconto autobiografico”, pp.1111-112, questa analisi. Moro e
Berlinguer erano d’accordo su una Grande Riforma, e sul fatto che essa “non si
poteva fare senza lo sforzo congiunto dei due partiti popolari, la Dc e il
Pci”. Moro, però, “rifiutò sempre la definizione di compromesso storico”,
perché il suo progetto era all’opposto di quello di Berlinguer.
In effetti, al compromesso
storico credettero soprattutto i neofiti – tra essi lo stesso Scalfari, che
giunse, da leader laico, a celebrare come reali solo le due “subculure”
confessionale e comunista. E dopo il 1989 il troncone principale, ma sbandato,
del Pci. I democristiani, Moro come Andreotti (usò i governi della solidarietà
nazionale, cioè i voti del Pci, per sconfiggere alle elezioni per la prima
volta il Pci), e poi De Mita, e i postdemocristiani, fino a Renzi, non ci hanno
mai creduto e non ci credono: niente compartecipazione.
Grande
Riforma
– Ne parla Scalfari in “Racconto autobiografico” come del disegno congiunto di
Moro e Berlinguer. Che però, dice caratteristicamente, senza paura cioè della
contraddizione, avevano idee opposte.
S’intende per Grande Riforma il
progetto di riformare la costituzione per il rafforzamento dell’esecutivo e la
semplificazione del legislativo. Che normalmente viene attribuito a Gelli, per
squalificarlo. In questo senso Gustavo Zagrebelsky caratterizza su
“Repubblica”, di cui è ora primo commentatore, la riforma che Renzi sta
tentando. Come un disegno oscuro.
Questo era il progetto anche di Moro,
dice Scalfari nelle memorie. Propendendo ora per Moro e non per Berlinguer. Ma
è utile rileggerlo: “Moro pensava alla rifondazione dello Stato, Berlinguer
alla costruzione di una società socialista”. Non era un divergenza da poco:
“Moro rifiutò sempre la definizione di compromesso storico perché, al di là
delle fumisterie con le quali gli esegeti berlingueriani cercavano di spiegarne
il contenuto, aveva ben compreso di che cosa si trattasse”. Impostare, invece della democrazia liberale,
“una struttura organica nella quale il pluralismo degli interessi e delle opinioni
fosse accolto e recepito orizzontalmente, dando luogo a sintesi via via
successive che dal sociale arrivassero al politico, dalle associazioni e
istituzioni di base a quelle di vertice”.
Può darsi che questa fosse l’opinione
di Moro sulla Grande Riforma di Berlinguer. È infatti una fumisteria più di
quelle degli “esegeti” – ammesso che non sia opera di Scalfari resipiscente invece
che di Moro. Ma il seguito dell’analisi di Scalfari non è fumoso, delineando
uno Stato corporativo, che in Italia vuole dire fascista – senza dirlo. Alla
base “istanze territoriali e istanze
professionali”, che i partiti interpretano,
ma non più come forze contrapposte, incarnazioni di idee o ideologie,
bensì come produttori di consenso: organismi
di canalizzazione dell’opinione “verso la nuova struttura compromissoria o
consociativa che dir si voglia”. Senza più “la distinzione dei ruoli tra
maggioranza e opposizione”. Uno Stato che è “una rete a maglie fitte di
comitati partecipati, idi istanze
decisionali collettive all’interno delle quali i confini siano ricomposti, di
sintesi in sintesi, fino a una generale programmazione dei bisogni e delle
risorse”. Partecipati, non partecipanti. Scalfari lo vuole “un modello molto
diverso da quello sovietico”. – cioè fascista?
Novecento
–
Si può dire il secolo della mobilitazione – della mobilitazione totale. Quindi
le sue macerie sono quelle della mobilitazione: le due guerre mondiali, il
fascismo, il nazismo, il comunismo, e la guerra fredda, anch’essa molto costrittiva
- violenta anche se non cruenta.
Razzismo
– Torna
biologico col dna? Elaborato sulle
classificazioni di Linneo nel 1735, utilizzato un secolo dopo a sostegno del
colonialismo, e poi dell’antisemitismo, rafforzato con una lettura ristretta
del darwinismo e dell’eugenetica, infine condannato dalla Chiesa romana,
collassato col nazismo, e dopo la guerra dimostrato scientificamente
inattendibile dal genetista Luigi Luca Cavalli Sforza. Il razzismo biologico
torna oggi a essere avocato quale segno di distinzione. Di continuità genetica,
e quindi razziale: nel segno della “purezza” e aristocrazia del sangue.
Sottintendendo la superiorità, il secondo connotato del razzismo biologico
In Israele stesso, il razzismo
biologico è ritenuto fondativo più della stessa religione. Una delle prime
ricerche genetiche, una ventina d’anni fa, dell’Istituto Technion di Haifa,
coordinata da Karl Skorecki, ha tracciato con la Bibbia e la genetica una
continuità costante e indelebile nei
Coen (Cohen, Kahan, Khan, cioè “sacerdote”), sia all’Est (nel gruppo
askenazita) che all’Ovest (nel gruppo sefardita o spagnolo). Una “scoperta” che
venne portata a riprova della compattezza religiosa e sociale della “razza
ebraica” nei millenni e nelle traversie della diaspora, ma di fondamento
biologico.
Stalinismo – “Ha da venì
vaffone” non è una battuta storica, alla Peppone: è stata ed è una divisa. “Sono stato
stalinista anch’io?” si chiedeva Italo Calvino al suo primo articolo su “la
Repubblica”, 16-17 dicembre 1979 (ora in “Un eremita a Parigi”), e si rispondeva:
sì, ma in certo modo. Che spiegava con un esempio: “Io ero amico di Franco
Venturi, che di cose successe laggiù ne sapeva parecchie e me le raccontava con
tutto il suo sarcasmo illuminista. Non gli credevo? Ma certo che gli credevo.
Solo che pensavo che io essendo comunista dovevo vedere quei fatti in un’altra
prospettiva dalla sua, in un altro bilancio del positivo e negativo”.
Stalin naturalmente era quello di
Stalingrado, il liberatore. Mentre dei processi e le epurazioni si sapeva, ma
nel quadro della propaganda politica antisovietica. Ma la stessa predisposizione
resta ora che il sovietismo si è cancellato, insieme con la propaganda cotraria
– “un’altra prospettiva”. Non in sede storica (ma anche in sede storica: Stalin
non è più la “bestia” su cui Kruscev tentò di scaricare i fallimenti). Nell’atteggiamento
mentale, del “popolo diverso. Benché sia ridotto a gruppo di potere, e solo
intellettuale.
astolfo@antiit.eu
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