A un
certo punto Calasso evoca, al centro del “Castello”, un andamento da musical:
“«Il Castello è tramato di conversazioni – esaltanti, sfibranti”, finché, eclissando
le “esasperanti” sottigliezze dei dialoghi, non irrompe, con ritmo scenico, il
comico. Il comico in Kafka non è una novità, lui stesso lo propone in
annotazioni e con gli amici. Ma qui “trionfa il gesto”, il sorriso si
materializza in in azione scenica musicata, “come in un musical di Busby Berkeley”
– in realtà un pantomimo. Siamo nel 1914, Kafka scrive “Il processo” e stenta a
concludere “Il disperso”, il musical è di là da venire, col sonoro: un
precursore dunque.
Di più,
verso la fine Kafka evoca “l’essenza più penetrante del musical”. Di cui
sarebbe anzi il pioniere, perché “sembra citare se stesso, rimandando alla
matrice di ogni musical, che è – nel «Disperso» - la scena del cambio di turno
dei sottoportieri all’Hotel Occidental”. L’ascendenza del genere non è
propriamente così lineare, le storie lo fanno ascendere a mezzo secolo prima,
una forma di amalgama per etnie di varia origine non anglofone. Ma certo è
suggestivo.
Calasso
“rinfresca” il suo Kafka in questa riedizione, “riveduta e illustrata”, del
“K.” del 2005. Il romanzo di un romanzo. Senza tradirlo, perché anche Kafka è stato giovane, e semmai è
vittima della sua fine, che riverbera di malattia, disinganni, impotenza e
angustie, perfino materiali, su tutta la sua storia, più divertita invece che
triste. Ne riproduce i disegni, tutti del genere caricaturale, cioè allegro. E
pone a sigillo in copertina una foto dello scrittore da gagà, con una Hansi
Julie Szokoll da vedettariato. Riconfermando l’altra sua perspicace scoperta di
Kafka, il sesso: sono Frieda, Pepi, Olga, Leni, “esseri femminili bisillabici,
subalterni, erotici”, i ricorrenti unici interlocutori di K. E Josef K. Più le
“barnabassiane”, l’intemerata e la svergognata, che prendono, calcola Calasso,
“sei capitoli e centoquindici pagine del «Castello», come un romanzo nel
romanzo”. Un aspetto di Kafka di cui Calasso resta esploratore isolato, benché
di una prateria e non di una giungla – e può pure sghignazzare dei suoi
interlocutori esemplari: “La natura erotica delle donne del «Processo» e del
«Castello» produce un sommovimento psichico incontrollabile in Benjamin e
Adorno” (Adorno per le note propensioni giunoniche, e forse correzionali,
Benjamin notoriamente imbranato, essendo molto sentimentale).
Ma
resta l’effetto dispersivo originario: “K.” È una rilettura quasi interlinea,
dispersa per blocchi tematici, del “Castello” e del “Processo”. Ma non aiuta a
leggere, nonché gustare, i due romanzi. Con rimandi vedici che si vogliono una
dilatazione d egli spazi, “Kafka ovunque”, ma non per il lettore, se non è già
iniziato. E con alcune pagine più problematiche che risolutive: il giudaismo
(biblismo?) del “condannato” e dell’“eletto” (che Calasso dice “il prescelto”,
mentre più caratteristicamente sarebbe il singled out, isolato), la
“psicologia degli ebrei assimilati”, l’ “omaggio alle letterature occidentali”
ridotto in tutto Kafka a Sancho Panza (12 righe) e Odisseo (50). Sottigliezze,
che non aiutano.
Del
personaggio Block Calasso fa “l’ebreo assimilato”, un punching ball su
cui Kafka scarica la derisione. Ma c’è più assimilato di Kafka? O si vuole
ridurre l’assimilazione al cristianesimo, alla religione? In questo caso sì,
Kafka è anzi blasfemo, come lo stesso Calasso rimarca: Block che adora il suo
avvocato è una parodia talmente empia del culto divino che al confronto “ogni
vignetta antisemita appare timida”. E allora: Kafka antisemita? Anche il
Dio-avvocato, Calasso avrebbe potuto aggiungere, è molto “ebraico”. Ma giusto
per le barzellette.
Ma
riscrivere tutto quello che Calasso ci trova è impresa inutile. Anche perché
non aiuta a leggere Kafka, semmai Calasso – si scrive K. ma si legge C. Geniale,
faticoso e pretestuoso, come tutte le riletture d’autore, che vogliono rifare
l’Autore – in cui lo “scrittore” si sovrappone allo “scritto”.Kafka sarebbe
stato contento di questa ri-creazione?Lui come gli altri autori di culto,
Proust, Joyce, Musil – tutti del Novecento, è il Novecento letterario che è
cultuale (avviene nel Novecento come a ogni caduta d’impero, che la storia
diventa ermeneutica). È la pratica dello sfinimento, per dirla alla Calasso.
Kafka diventa interstiziale, colloso: frammentato in tante striscioline, che
s’infilano ovunque, difficile da ricostruire o rammemorare.
Tanti
i temi. L’insonnia, che sarebbe stato un filo anche più consistente del musical
– Calasso avrebbe editato “Il processo” come “storia di un risveglio forzato”.
Oltre che il padre castratore. O lo scrittore “capro espiatorio dell’umanità”.
Le parole ricorrenti, “caccia”, “cabala”, trostlos (sconsolato). La
dannazione dell’autoosservazione – lo sdoppiamento, lo specchio. La colpa, la
colpa degli altri: – nell’edizione
critica dei “Diari”, quella che non ha espunto le ripetizioni, e nelle lettere, “tema prediletto” è “elencare tutte
le persone che hanno danneggiato in varia misura colui che scrive”.
C’è
tutto ma alla fine nulla. Molto peraltro restando ancora da dire. Per esempio
la misoginia di Kafka, homme à femmes – di Hansi, secondo Brod, avrebbe
detto: “Sul suo corpo erano passati interi reggimenti di cavalleria”, con i
cavali, cioè, inclusi. Calasso ci tiene, forse troppo, dandone una lettura
immemorabile – non metabolizzabile. Se non di uno scrittore evanescente.
Profondo forse, ma chissà – la metafisica è grata e ingrata.
Roberto
Calasso, K., Adelphi, pp. 360 € 14
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