Un
Heidegger inedito che si legge per i contributi critici. Carlo Augusto Viano rileva nell’esercitazione
pedagogica “una connessione esplicita tra la filosofia di Heidegger e l’ideologia
nazionalsocialista, ricondotta al Führerprinzip incarnato da Hitler”. In questo testo e più in generale. Infastidito
anche, malgrado la rivista che lo ospita, dal vezzo persistente della “cultura
di sinistra antimoderna o, come prese a chiamarsi, postmoderna”, di
rifarsi a Heidegger “per mettere in guardia contro ciò che il Führer aveva
fatto, addossandone la responsabilità alla cultura liberale” - una delle
“imposture che i seguaci di Heidegger hanno diffuso a piene mani”.
Giovanni
Reale sbriga in poche parole la questione dello Stato di Heidegger e la
Repubblica di Platone: non hanno nulla in comune. Gianni Vattimo invece si
arrampica sugli specchi per dire la filosofia di Heidegger non nazista. Che non
sarebbe difficile. Ma Vattimo evita di dirsi, e dirci, cos’era il nazismo. Se
lo si confina alla follia è pure facile, ma non è possibile. La questione di cos’era
– cos’è: la Germania non ne parla ma non se ne è vaccinata – il nazismo resta
inevasa. Sì, la guerra perduta dopo averla vinta. Sì, la Soluzione Finale. Ma
poi? Nell’attesa, questo si può dire: il nazismo, eccettuata la sconfitta, fu
tutto quello che Heidegger voleva, il Volk, la Germania “greca”(che nessuno,
non solo Vattimo, ci dice ancora cosa voleva dire), superiore, pura. Tutte
scemenze, pericolose, ma quello è.
Il
testo è la sintesi che le matricole di Friburgo fecero di un’esercitazione che
il neo-rettore Heidegger volle dedicare loro, le menti vergini, nel 1933-34.
Dieci ore di lezione, alcune spese metodologicamente sulle nozioni di essenza e
di concetto, il resto a portare i neofiti all’adorazione di Hitler. Roba di
poco conto, tanto più nelle dispense studentesche. Se non per l’incarnazione
esplicita dello Stato ne “il Führer e il suo popolo”: “Solamente dove guidatore e guidati (Führer e Geführte)
si legano collettivamente in un destino e lottano per la realizzazione
di una idea, cresce un ordinamento statuale… L’esistenza e la
superiorità del Führer sono incarnati nell’essere, nell’anima del popolo,
legandolo con originalità e passione al compito. E se il popolo sentirà questa
dedizione, si lascerà guidare nella lotta e amare e volere la lotta”.
Non è
la sola ridicolaggine. La “necessità di un Führer” ricorre altre tre o quattro
volte nell’esercitazione. Con l’affettuosa conclusione che non a torto il Führer
era stato detto “Tamburino”, per i suoi
discorsi persuasivi e la potenza delle sue azioni. Anche perché l’“avversione” è
una “relazione di privazione che si trasforma in un evidente rapporto di
negazione”, nulla di più: non c’è resistenza possibile, sia pure nella “costrizione”.
In altro testo, più impegnativo, così il filosofo Heidegger presentava la storia:
“Quando girano le
eliche di un velivolo non accade propriamente nulla. Ma se il velivolo
porta Hitler da Mussolini, allora accade la storia. Il volo diventa storia. La
storia è cosa rara”.
Per
ridicolo che sia filosoficamente il Führerprinzip, è un fatto – con e senza Heidegger:
l’identificazione di popolo e capo. Si potrebbe cominciare da qui a chiarire il
nazismo. Che fu espresso dal popolo più filosofico, ricco e, a suo modo,
potente d’Europa, che era il continente più industrioso e civile del mondo,
mica da una tribù dispersa preda dello sciamano.
Martin
Heidegger, Su essenza e concetto di natura, storia e Stato, ”Micromega”,
n. 7\2013, pp. 51-96 € 15
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