giovedì 3 aprile 2014

L’eurobond costa di più – il caso Italia

 “Gli investitori non credettero alle obbligazioni italiane per sei anni dopo l’unità, fino a che non fu introdotta una fiscalità unificata”. Il caso dell’Italia postunitaria è per almeno tre aspetti analogo a quello della Ue: stati eterogenei, per storia, lingua, ricchezza, consistenza, con sistemi fiscali separati e diversi, per i quali l’integrazione del debito sovrano è proposta come strumento dell’integrazione politica. Il varo degli eurobond, o bluebond, o e-bond, ammesso che ci si arrivi, potrebbe non essere benefico, agire cioè per la riduzione del debito, dei costi del debito, non nell’immediato.
Collet pone d’acchito questa parte della sua ricerca, che intitola “A unified Italy? Sovereign debt and investor’s scepticism”, nell’attualità. Si discute sull’impatto dell’unificazione dei debiti sovrani in Europa, ”se è la ricetta per ridurre i rendimenti richiesti dagli investitori”. La risposta è no. Non subito, e non prima dell’unificazione dei sistemi fiscali. Perché in ogni caso, concluderà la studiosa, non si potrà europeizzare tutto il debito degli Stati membri – ipotesi comunque da escludere, perché d’impatto sicuramente negativo, il mercato ne diffiderebbe. La proposta più accettata, per quanto teorica, è quella del centro “Bruegel”, di europeizzare fino al 60 per cento del debito dei paesi dell’euro, lasciando il resto del ai redbond, le obbligazioni emesse e garantire dagli Stati membri.
Decisa nel 1863, due anni dopo l’unità politica, l’unificazione del debito non incontrò che scetticismo. Per almeno sette anni, finché l’unificazione dei sistemi fiscali, avviata nel 1867, non divenne consistente e definitiva – o no, anche, per lo sbarco dell’Italia  a Roma, relativamente indolore. Gli spread  aumentarono tra 90 e 260 punti base nel 1861 e nel 1862. Sull’ipotesi “troppo grande per fallire” prevalse lo scetticismo sull’esistenza dell’Italia – “il razionale sottostante è che quando si fa la frittata è poi difficile separare le uova”. L’esito? “Il fattore comune «Italia» resta debole fino al 1868”.
La diffidenza, andrebbe aggiunto, fu alimentata anche dai rendimenti: i nuovi titoli venivano offerti al tasso fisso del 3 e del 5 per cento, mentre i vecchi avevano rendimenti variabili dal 6 al 10 per cento - con punte del 12, e anche del 14, in coincidenza con l’unità politica – “attorno all’unificazione, nel 1861, aumenti dei rendimenti sono rilevati per tutte le obbligazioni” dei sette Stati italiani.
La conclusione è che i “premi di rischio” si collegano non solo alle guerre ma anche alle unificazioni di più emittenti. L’europeizzazione del debito dovrebbe quindi essere “collegata alla questione della fiscalità comune e del controllo delle finanze degli stati membri”, come oggi fanno gli stati federali sugli enti locali. In mancanza, “è legittimo chiedersi se l’integrazione dei debiti sovrani non provocherà un aumento del premio di rischio richiesto dagli investitori e dal mercato”.
Il debito non è sovrano
Lo studio è la tesi di dottorato, discussa dalla studiosa due anni fa alla Solvay Brussels School of Economics and Management. I debiti sovrani non sono esenti da rischi, malgrado il nome, o forse a causa di esso. C’è sempre il rischio della guerra, o della rivoluzione. Lo studio esamina i tre casi più ordinari: il ripudio del debito per la sua “odiosità”, “l’introduzione di un debito comune dopo l’unificazione di uno stato”, e “la divisione del debito in seguito alla partizione di uno stato”. Il secondo, che è il caso dell’Eurozona oggi, la studiosa pone in controluce con l’unità d’Italia perché è il “caso storico più prossimo”, documentabile (Collet usa gli archivi delle Borse di Parigi e Anversa, su 27 titoli italiani), di unificazione dei debiti di vari stati.
Questo è il caso che interessa oggi. Il terzo caso, la divisione di un paese unito, quale poteva essere un paio d’anni fa il Belgio e oggi la Spagna e la Gran Bretagna, la studiosa analizza sul database storico della nascita del Belgio nel 1830 per scissione dall’Olanda. Ma anche il primo caso non è privo di interesse, analizzato sulle esperienze di Cuba e della Russia zarista. Entrambi i paesi pagavano una penalità per l’“odiosità” del debito, Cuba per il revanscismo anticoloniale, che poi s’impersonò in Castro, la Russia per il dispotismo. Ma la penalità più alta, quella sulle obbligazioni di Cuba, si aggirava sui 200 punti base. Non sui 500 e più che hanno colpito il debito italiano nel 2011-2013.
La nutrita bibliografia segnala tre soli contributi italiani, non estesi – di Conte, Toniolo e Vecchi, di Dincecco, Federico e Vindigni, e di Giuseppe Tattara. Eugenio Scalfari è forse quello che se ne è occupato per primo, su “Nuova Antologia”, nel 1947, in prospettiva unitaria – il suo problema è l’eredità del “pesante lascito di diversi Stati e staterelli”, ricorda in “Racconto autobiografico”. Da allora quasi più nulla. 
Stéphanie Collet, Sovereign Bonds: Odious Debts and State Succession, free online

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