Si traduceva vent’anni fa questo Derrida di
ripiego, sessanta pagine non piene rinforzate da prolissi commentari di Ferraris,
Resta, Rovatti, Sini, Vattimo, Vitiello. Sono tanti forse per promuovere il
libro nei corsi universitari, ma il testo è singolarmente povero, anche delle
concettosità che Derrida impreziosiscono.
Non reducistico né critico, un testo asettico. Non un ritorno da Mosca,
propriamente, dove Derrida era stato nel febbraio 1990, a ridosso della caduta
del Muro, un anno prima la caduta dell’Urss, ma un “ritorno”: una riflessione sul genere.
Con molti riferimenti a due “classici” del genere, il ritorno di Gide, quello
di Étiemble e quello di Benjamin – che, bisogna ricordarlo, era stato a Mosca come
innamorato sfortunato della temibile Asja Lacis. Conditi dall’illustrazione di
“Back in Urss”, canzone dei Beatles. Un ritorno mesto, di uno che pure non era
stato fervente sovietizzante: s’interroga sulla “testimonianza
dell’intellettuale”, non sa che rispondere, sconsolato, sconsolante.
Jacques
Derrida, Ritorno da Mosca
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