Giovane
ingegnere al Politecnico di Stoccarda, Musil si annoiava: “Così avvenne”,
scriverà una trentina d’anni dopo, “che cominciassi a scrivere”. Roba che confluirà
nei “Turbamenti del giovane Törless”, e in questo “Mach”. La noia infatti durò
poco: Musil lasciò l’ingegneria e Stoccarda per la filosofia e Berlino, e
Nietszche per Mach, sul quale scriverà questa che è la sua tesi di dottorato. A
28 anni, due prima del “Törless”.
Mach,
scienziato e filosofo, era lo specchio di Musil. Che non vi identifica, ma ne
trarrà lo spirito del suo lavoro letterario: il negativo del reale. Lo
sradicamento di ogni positivismo. Che non aveva più campo né nella scienza né
nella filosofia. Ma la sua estruzione non è indolore per Musil, pur sempre un
ingegnere.
Mach è
per la scienza un po’ quello che sarà Wittgenstein per il linguaggio, un
decostruttore. Sarà aspramente avversato da Lenin (“Materialismo ed
empiriocriticismo”, contemporaneo della tesi di Musil, 1908-1909), e criticato
da Husserl e Max Planck. Musil si limita all’esposizione, non avendo i mezzi né
l’autorità per avallare o criticare. Ma con alcune preferenze concettuali. Il
riferimento a Maxwell e Hertz come a fisici matematici che, pur essendo “grandi
promotori… di ipotesi meccaniche”, le
vogliono mere immagini dei fatti, immagini intuitive. Lo spazio, il tempo, il
movimento riconosciuti “quantità di esperienza” soltanto in quanto significhino
relazione. La “cosiddetta causa” che non è mai altro che il “cosiddetto
effetto” – “in natura non esiste né causa né effetto”. Anche: “Il caso della
quiete è solo un caso speciale di moto”. O: “La natura esiste una volta sola”,
le ripetizioni sono “astrazioni che noi operiamo allo scopo di riprodurre i
fatti”. E che dire degli elementi, instabili per natura – perché i corpi si
fondono, si liquefano, si vaporizzano, trascolorano, e solidificano?
Robert
Musil, Sulle teorie di Mach
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