Tutto
‘ndrangheta
Sparano a Monaco alla più ricca del reame e,
per non saper che dire, si dice sia stata la ‘ndrangheta. Che dunque non ha più
buona mira? Matacena è latitante e, tra tutti, s’indaga il potente politico di Imperia-Ventimiglia,
ormai enclave di calabresi, dunque di ‘ndranghetisti. Anche per l’Expo di Milano,
prima della lite in Procura, non s’indagavano che le imprese edili dei
calabresi, per i subappalti dei subappalti, che tutte avevano in qualche modo
almeno un manovale bisnipote o triscugino di un condannato per mafia, associazione,
concorso esterno in associazione. A opera del pezzo meglio di quella Procura, la
giudice Boccassini.
Uno finiva per montarsi la testa, anche se
subodorava un po’ di razzismo e molto menefreghismo. Dei napoletani in specie: i
napoletani sono razzisti, specie se stanno a Milano, e ancora di più se
giudici. Un po’ anche, certo non volendo, a copertura della grande corruzione, come tutti sanno, e sapevano – i napoletani vogliono bene a Milano.
Anche a Torino, non sembra ci siano altri
malviventi, solo ‘ndranghetisti. Manca Roma, la quarta area (prima per numero:
Roma è la città calabrese di gran lunga più grande), per completare la mappa
dello strapotere della ‘ndrangheta, ma Pignatone ci sta pensando.
Dire tutto ‘ndrangheta è difficile, duro da
pronunciare, ma il concetto è facile: tutti colpevoli nessun colpevole.
Soprattutto non i colpevoli.
Federico Cafiero De Raho, il Procuratore in
carica a Reggio da un anno e mezzo, non è che non abbia altro da fare. Cioè ce
l’avrebbe, di questo nessuno dubita. Ma è stato molto assorbito dal compito,
avendo azzerato il consiglio comunale, di impedire che se ne elegga uno nuovo. Ora ha trovato un po’ di respiro per colpire
Scajola, e questo fa ben sperare. Anche se solo della latitanza di Matacena
Cafiero De Raho ha contezza, di altri no.
Lui però, come buono napoletano, forse non ha
molta voglia di stare a Reggio, a differenza di Boccassini a Milano
Non
siamo buoni neppure come camerieri
“Benvenuti al Sud”, spiega Alfonso Ruffo sul
“Sole 24 Ore” l’altra domenica, è ora solo un auspicio. “Su 380 milioni di
presenze turistiche solo il 20% (76 milioni) sceglie le località meridionali”.
Peggio va con gli stranieri: va al Sud “uno striminzito 13%”, venti milioni di
presenze straniere su 160.
Benché, si può aggiungere, sia stato proprio il
Sud, fino a un secolo fa, l’attrazione maggiore del turismo straniero in
Italia. Per la natura e la cultura, e per l’accoglienza: alberghi,
ristorazione, amabilità, servizievolezza. Non siamo più nemmeno buoni
camerieri.
Ci sono regioni che da sole fatturano più spesa
turistica straniera di tutto il Sud messo assieme: 5,3 miliardi il Lazio e
altrettanti la Lombardia, 5 il Veneto, contro i 4 spesi in tutto il Meridione.
La Sicilia per venti anni, dopo gli assassinii di Lima e Dalla Chiesa, fu un paradiso per il turista: non ci andava nessuno. Passare le giornate in solitario a Segesta, Solunto, Piazza Armerina, la Valle dei Templi, anche allo Zingaro e a San Vito Lo Capo, o lungo l'Anapo e a Pantalica, è un privilegio inestimabile.
La Sicilia per venti anni, dopo gli assassinii di Lima e Dalla Chiesa, fu un paradiso per il turista: non ci andava nessuno. Passare le giornate in solitario a Segesta, Solunto, Piazza Armerina, la Valle dei Templi, anche allo Zingaro e a San Vito Lo Capo, o lungo l'Anapo e a Pantalica, è un privilegio inestimabile.
È Nord
contro Sud perfino sugli immigrati
Arrivano con gli immigrati senza documenti,
anzi istruiti a non farsi identificare, la tubercolosi, la scabbia, l’aids. Ma
non si può dire: è razzismo. E siccome arrivano al Sud, in Sicilia e in
Calabria, i meridionali sono razzisti.
Poi alcuni immigrati bivaccano alla Stazione
Centrale di Milano, e allora è scandalo. Telegiornali, prime pagine,
interrogazioni parlamentari. E non erano nemmeno molti, alcune decine. Ma
bisogna nascondere gli immigrati a Milano, solo a Lampedusa stanno al loro
posto. Anche a Crotone.
C’è gagliofferia Nord-Sud pure sugli immigrati.
E il giornale di Milano si distingue. Che dice di ispirarsi al vescovo
cardinale Martini. Col quale però, evidentemente, è morta anche la virtù della
prudenza.
Se non che, come in tutte le cose, c’è anche
qui un Nord più a Nord. E il giornale del cardinale manda una giornalista,
Alessandra Coppola (@terrastraniera), a raccogliere la
“testimonianza” di un ministro svedese: “Stoccolma riceve 1.500 richieste (di asilo)
al mese, «tante quante l’Italia in un anno», ha marcato critico al Corriere il ministro dell’Immigrazione
Tobias Billström”. Che non è vero. Mentre è vero che la Marina italiana salva ogni giorno 1.500 persone al largo di
Lampedusa. Dov’è che non sanno contare, a Milano o a Stoccolma?
Autobio
Montanelli fa dire a Prezzolini: “Non puoi
capire con quanta gioia, fin da ragazzo, varcavo il confine”. È vero, la gioia
può essere grande, un modo di essere. Perché, cos’è il confine? Una lingua
diversa, un modo di fare diverso, all’epoca il passaporto, il cambio, la
lingua, una serie di disagi. Ma l’eccitazione e la gioia sovrastano la fatica.
Viaggiare non ha nessuna necessità, ma questa
gioia ci può essere, c’è, è un fatto. Allo stesso modo, però, può operare il
ritorno. Non mesto, e anzi in qualche modo entusiasmante anch’esso. Se una distanza si è creata, comunque intermessa, allora
il ritorno è anche una (ri)scoperta. Il ritorno dell’emigrato in particolare, dell’interno
o dell’esterno, a distanza di anni dal distacco, può offrire la stessa gioia
del viaggio oltre il confine. Come un senso di scoperta, anche se più spesso il
mondo è sempre quello di un tempo, immutato. O proprio per questo: la scoperta
è delle cose più vissute, dei luoghi usati, dei modi di essere, scontati, forse
stantii e sempre deprecati, ma con altri occhi. L’occhio è diverso,
interessato, interessante, se viene da oltre il “confine”.
Chi sta dentro non sta fuori, è caso di logica
elementare. E tuttavia sì, si può stare fuori stando dentro. Si vuole (può
volere) uscire perché quello è il proprio modo di essere . “Proprio” e cioè personale,
familiare, di scuola o di progetto (aperto sul mondo), culturale, di mentalità,
dell’epoca, ideologico anche (il progresso, la scoperta, il confronto). Bisogna
rivedere i fattori dell’emigrazione, l’equazione è a più variabili – e il
bisogno è forse il minore.
Al Governor’s Camp, gita disintossicante in
Kenya dalle fumisterie traditrici della politica a Nairobi, un campo su un dirupo sopra un fiume, di grandi tende
con bagno privato, si può essere svegliati da un tuono ritmato,
accelerato, sordo,
di terremoto che cresce d’intensità. Finché contro il sole radente si stagliano
dei barbagli, di aria e terra smossa, che in un angolo di ombra si precisano
per quadrupedi in corsa, una mandria larga da riempire l’orizzonte, che arriva
al galoppo, senza padrone, senza guida. Vanno
folli, compatte, a gran ritmo le colonne di gnu, o sono zebù, gran strepito fanno mute, vanno
al vento ondeggiando in una direzione o nell’altra, dietro l’improvvisato
capomandria. Dietro il quale si rompono sul costone sopra il fiume, si agitano,
si avventurano in discese oblique o si buttano giù, senza avere come lui calcolato,
senza la stessa perizia, rompendosi i più le gambe. Un
centinaio di metri più a monte, o a valle, il guado sarebbe piatto.
È la nevrosi nella sua bestialità, andare da
qui a là per percorsi diretti incuranti degli ostacoli. Né la mandria ha necessità di attraversare
il fiume, all’alba la quiete s’impone, i predatori non vanno a caccia, né di
bere. Ma la vita animale, che sembra placida, è uguale a
quella urbana, dritti di corsa, una volta preso lo slancio, verso nessuna meta.
All’imbrunire
i felini carnivori sono partiti a caccia, assassini che la letteratura
nobilita, ma la violenza è la stessa, irrefrenabile, del più grande che
annienta il più piccolo, né c’è resistenza possibile. Si
torna in Africa, è vero, alla vita naturale.
O la visione mattutina al Governor’s Camp è
un’allucinazione. In Africa anche questo è facile. O solo un fatto d’insonnia,
dei sensi acuminati dall’insonnia, rapidi, troppo rapidi, specie alla preluce, guatata
con ansia ma anche con apprensione. La luce fresca della mattina, fredda,
insonora, quella che un pittore direbbe metafisica.
Uno scrittore non sottile, un Dan Bown, ne
farebbe l’epitome dell’umanità, che corre sempre più furiosa e non sa dove. L’umanità mandria, di zebù o gnu che siano,
che finisce nel burrone solo per l’ansia di correre. Correre senza limiti,
senza freni, l’uno dietro e accanto all’altro, che il precipizio non vedono, per
la vertigine dello sconfinato che calamita, perché fa bene ai polmoni anche se
non s’addice alla libertà.
Cos’ha da fare tutto ciò, visione o sogno che
sia, o allucinazione, col luogo natio non è detto. Ma con se stessi sì. È
l’idea anche che tutto è permesso, del progresso che sempre è bello e buono correndo avanti, più avanti,
ma più spesso che non frana, precipita nel burrone. Lo spazio è finito, le crociere
limitate. Questa nella savana africana che non ha limiti, e l’orizzonte ha vago,
è percezione psichica.
leuzzi@antiit.eu
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