domenica 4 maggio 2014

Da “joysuini” a “joysuiti”

L’abbozzo di un’epopea o leggenda irlandese. Più abbozzi, ma rifiniti, dieci racconti brevi. Stesi  nel 1923, alla pubblicazione dell’“Ulisse”, poi reinventati per esteso in “Finnegans Wake”. Una parodia: nel frammento la parodia è indissimulata, il gioco di parole incontenibile mette in burla l’epica, che è qui la storia patria dopo la Dublino dell’“Ulisse”. A date rovesciate, opera di quattro professori emeriti, ciascuno specialista dei quattro tempi della storia, “il passato, il presente, l’assente e il futuro”.
Tre saggi introducono e un illustratore accompagna le brevi prose. Per dire che non se ne può più dell’esegetica interminabile, asfissiante e autoritaria che irretisce lo scrittore irlandese. Ottavio Fatica, il bravo traduttore, avendo infine potuto tradurre un Joyce, ne è esacerbato – joycianamente anche lui: della tanta audacia che si trasforma in intolleranza (“possibilmente inalterabile, della conservazione a tutti i costi, come comprova ogni regime rivoluzionario”). Passaggio che sintetizza da “joysuini” a “joysuiti” - entrando a sua volta, joycianamente, nel pantheon joyciano. Il contagio è irreversibile?
Per il lettore il solito busillis: ridere o piangere? L’edizioncina è bella, la più bella che sia stata fatta di queste prose ritrovate, che anche altrove non hanno avuto molta fortuna. E la fortuna, va aggiunto, queste prose la meritano, perché, malgrado la follia del vocabolario, Joyce sa raccontare in poche righe: è un frammentista - sarà epico ma di frammenti.
James Joyce, Finn’s Hotel, Gallucci, pp. 125 € 13

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