L’abbozzo
di un’epopea o leggenda irlandese. Più abbozzi, ma rifiniti, dieci racconti
brevi. Stesi nel 1923, alla
pubblicazione dell’“Ulisse”, poi reinventati per esteso in “Finnegans Wake”.
Una parodia: nel frammento la parodia è indissimulata, il gioco di parole
incontenibile mette in burla l’epica, che è qui la storia patria dopo la
Dublino dell’“Ulisse”. A date
rovesciate, opera di quattro professori emeriti, ciascuno specialista dei
quattro tempi della storia, “il passato, il presente, l’assente e il futuro”.
Tre
saggi introducono e un illustratore accompagna le brevi prose. Per dire che non se ne può più dell’esegetica interminabile,
asfissiante e autoritaria che irretisce lo scrittore irlandese. Ottavio Fatica,
il bravo traduttore, avendo infine potuto tradurre un Joyce, ne è esacerbato – joycianamente
anche lui: della tanta audacia che si trasforma in intolleranza (“possibilmente
inalterabile, della conservazione a tutti i costi, come comprova ogni regime
rivoluzionario”). Passaggio che sintetizza da “joysuini” a “joysuiti” - entrando
a sua volta, joycianamente, nel pantheon joyciano. Il contagio è irreversibile?
Per il
lettore il solito busillis: ridere o piangere? L’edizioncina è bella, la più
bella che sia stata fatta di queste prose ritrovate, che anche altrove non hanno
avuto molta fortuna. E la fortuna, va aggiunto, queste prose la meritano, perché,
malgrado la follia del vocabolario, Joyce sa raccontare in poche righe: è un frammentista
- sarà epico ma di frammenti.
James
Joyce, Finn’s Hotel, Gallucci, pp. 125 € 13
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