Un
omaggio al maestro della Scienza politica - per i novant’anni tra una settimana. Il creatore della
“ingegneria politica” come variante applicata della stessa. Un’ingegneria tripartita: costituzionale, elettorale, partitica. Nel quadro di un
“perfezionismo democratico” purtroppo sterile, che la collettanea, molto
elaborata, tecnica, mette involontariamente in risalto.
Sartori,
ottimo didatta, vuole tutto “a posto”, incasellato - cominciava l’insegnamento
un tempo imponendo un corso di metodologia, che non era altro che l’uso del
vocabolario: “È necessario parlare la stessa lingua”. L’esito è sterile, al
termine di un percorso che, partendo da una radicale cancellazione del
pregiudizio e da un’apertura senza paraocchi sul mondo com’è, finisce imbucato
in una sorta di macchinismo, di razionalità politica a basso voltaggio. Che
tende a escludere bisogni e tormenti, anzi li vuole esclusi: passioni, forze in
campo, idealità, interessi, la materia viva della politica. Una procedura via
via più semplificata, schematica, fino all’ultima inconcludente analisi di Berlusconi
– la mediocrazia intesa come proprietà dei mezzi e non dei loro linguaggi (che
invece sono politica, eccome).
L’esito
è anni luce dal liberalismo iniziale: la democrazia come “poliarchia
selettiva”. L’eccesso di formalismo porta lo studioso nel vicolo cieco della
sociologia del potere o delle élites da cui rifuggiva – e ritiene tuttora di
rifuggire. La geometria sarà un metro utile a misurare la politica, la quale
però ad essa non si conforma. Non può e probabilmente non deve. Anzi non deve,
altrimenti non ne avremmo avuto bisogno, l’avremmo già messa “a posto”, in un
paio di teoremi.
Gianfranco
Pasquino (a cura di), La Repubblica di Sartori, “Paradoxa”,
gennaio-marzo 2014, pp. 162 € 14
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