Uno
dei pochi libri veritieri, se non il solo, che ancora si leggono con profitto
sul sistema sovietico, benché di professi solo una “raccolta di osservazioni”,
o forse per questo. Di giudizio acuto e scrittura sobria. Onesto anche, senza il
facile antisovietismo dell’Italia fascista. Di un’intelligenza indipendente.
Alvaro
girò l’Unione Sovietica tra la primavera e l’estate del 1934. Era inviato della
“Stampa”, ma il viaggio fu comunque organizzato e controllato, soggetto alle
premure degli ospiti. C’erano le collettivizzazioni forzate, e ci fu l’assassinio
di Kirov, preludio ai processi all’interno del Pcus. L’albergo di Mosca gli
appare subito “un’istituzione della Ghepeù”, la polizia politica. Tanto più per
le “premure” che lo assediano, al punto da farlo sentire in colpa, inadeguato o
irriconoscente.
La sua
prima impressione è quella che caratterizzerà storicamente l’epoca sovietica: la
provvisorietà, l’incertezza. Senza l’entusiasmo o la consapevolezza che sempre
accompagna una vittoria, una presa del potere. Mentre il passato sopravvive
polveroso e cadente. La rivoluzione è un fatto remoto, solo testimoniata dall’“ingente
numero di storpi, mutilati, stroncati, vittime di quell’errare esaltato”. C’è
la febbre per la “tecnica”, con associazioni di Atei, Materialisti Militanti, Senza
Dio, e una consistente mancanza di sentimento. Del socialismo liberatore e comunitario
non c’è niente. Con sgomento Alvaro scopre che “i loro stessi libri ci
raccontano che i contadini recalcitranti nel primo tempo della socializzazione furono
matati come buoi a colpi di clava, e che i giustizieri più efferati furono le
donne”.
Si
obbedisce. La parola d’ordine peraltro non è rifiutata e anzi entusiasma, seppure
freddamente: “Raggiungere e superare l’Occidente”. Ma la denuncia del vicino, e
perfino del familiare, è pratica corrente. E il controllo totalitario – Alvaro non
si fa illusione sulla sbrigativa autorevolezza delle sue “guide”. Non si faceva
illusioni neanche sui “transfughi intellettuali” che proliferavano in Occidente
inneggiando a un bolscevismo di maniera, di cui non avevano conoscenza. Più che
altro sacerdoti del “culto estetizzante di un’apocalisse moderna”. La sua
solitudine intellettuale affrontava con fermezza, di molti individuando l’inconsistenza:
“Di questi personaggi ne ho venduto alcuni a Mosca, sono più o meno speculatori
del sovietismo: profittatori mantenuti nei grandi alberghi, e che su questa
povera pelle proletaria fanno i loro affarucci in valuta estera”.
Corrado
Alvaro, I maestri del diluvio
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