“Il silenzio è l’intorno e l’intervallo”. Non la rete, su cui il linguaggio affiora come un
ricamo? O, meglio, un’efflorescenza? Sini porta subito l’esempio della grande
Piramide di Whitehead, che sta lì sempre uguale ma oggi non è la stessa di
ieri. L’esempio di Whitehead non è una figurazione della tela di fondo, della rete?
Si dice “il resto è silenzio” ma per dire “il tutto è silenzio”. Che il suono
sovrasta, la voce, il rumore, senza strapparlo o interromperlo. “Non c’è nulla
di più rumoroso del silenzio di Dio”, lo stesso Sini conclude. Ognuno lo può
“vedere” nel “Grande silenzio” (“Die Große Stille”), il film tedesco del 2005 sulla vita di
trappa, di Philip Gröning.
Una rete, una tessitura, che ancora
Sini alla fine addita come fine fondo alla parola di verità, quella del filosofo, quale egli è: “La virtù prima del
filosofo non è la parola, ma l’ascolto… è infatti nel silenzio e dal silenzio
che l’io, il mondo e la parola emergono, tra loro originariamente uniti”.”.
Sulla traccia di Merleau-Ponty, che al filosofo dà il compito di “prendere in
considerazione la parola prima che sia pronunciata, sullo sfondo del silenzio
che la precede, che non cessa di accompagnarla e senza il quale essa non
direbbe nulla” - di “rendersi sensibili a quei fili di silenzio di cui il tessuto
della parola è intramato”.
Il saggio si pubblica da parte
di un’Accademia del Silenzio, che a Milano dove ha sede ha un certo numero di
aderenti e un vasto programma in una dozzina di punti, ideati e animati da Duccio
Demetrio e Nicoleta Polla-Mattiot. Ma con o senza smartphone, che per lo
più è silenzioso, benché pullulante di
app, o vasti programmi, e quindi ineliminabile? Perché silenzio significa
distacco, dalla società “rumorosa” più che dal suono. E forse è definitivamente
obliterato dalla moderna società della conoscenza, molto discreta da questo
punto di vista. “Il vero segreto
di Stato è il silenzio”, dicono le vittime delle stragi, i parenti. Falso: il
vero segreto sono le parole, troppe. “In fondo, lo scopo del teatro è un
silenzio udibile”, confida a Fazio Albertazzi, che a 90 e passa anni se ne
intende, sotto le (tante) parole.
Il testo francese è un lungo sfogo,
dettagliato, di uno, come tutti, vittima dei rumori, sempre molesti. Per la
vita che da un secolo e mezzo è cambiata, col motore a scoppio, l’elettricità,
e l’affluenza generalizzata. Ma forse, più che altro, per la maleducazione che si accompagna
alla società dei diritti, nella vita in condominio.
Il vecchio libro
di Rovatti, una raccolta di articoli, è da questo
punto di vista insorpassato, che il silenzio vorrebbe anche in filosofia. “Dopo aver camminato a lungo per le vie,
in mezzo alla gente, alle cose e ai segnali, ho voglia di isolarmi dal rumore:
cerco un luogo tranquillo per riposare, rilassarmi, pensare; per non pensare a
niente, svuotarmi i sensi e la testa; per concentrarmi, smettere di sentire,
cominciare ad ascoltare”, etc. etc, molto idilliaco. Il filosofo ama ascoltare,
e dunque deve poter sentire: “Questa condizione di silenzio e di solitudine mi
permette di ritrovare una percezione di me e del mondo che mi sta attorno,
precisamente un ascolto. Il silenzio che mi sono procurato, isolandomi dai
rumori normali, mi permette di ascoltare. Ma è piuttosto un pensare, un ascolto
pensante. Come se prima fosse stato l’esterno a riempire la mia esperienza, e
invece adesso esterno e interno agissero in me corrispondendosi. E forse è proprio
questo gioco, grazie al quale interno ed esterno passano l’uno nell’altro senza
appiattirsi o riassorbirsi l’uno nell'altro, che mi fa sentire e pensare
assieme”. Ma, pur volendo il silenzio un antidoto all’“anomalo gonfiamento
dell’Io” da Jung deprecato, conclude: “Mi
accorgo che in questo rilassarmi ho lasciato essere una dimensione di apertura
della mia esperienza che di solito è messa a tacere”.
L’Io deprecato è la condizione
postmoderna, cioè di molta filosofia. A meno del silenzio esicasta.
Rovatti esclude dal suo silenzio la contemplazione,
l’ignaziano ritiro spirituale, la trappa. Volendosi, qui come in altra sede,
uno “per fortuna” immune alla religione. Ma il suo “silenzio” è esicasta, di
chi parla di sé (di Dio) a se stesso.
Carlo Sini, Il gioco del silenzio, Mimesis, pp. 41
€ 3,90
Jean-Michel
Delacomptée, Petit éloge des amoureux du
silence, Folio, pp. 134 € 2
Pier Aldo Rovatti,
L’esercizio del silenzio, Cortina, pp. 134 € 11
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