sabato 17 maggio 2014

Il segreto della parola è l’ascolto

“Il silenzio è l’intorno e l’intervallo”. Non la rete, su cui il linguaggio affiora come un ricamo? O, meglio, un’efflorescenza? Sini porta subito l’esempio della grande Piramide di Whitehead, che sta lì sempre uguale ma oggi non è la stessa di ieri. L’esempio di Whitehead non è una figurazione della tela di fondo, della rete? Si dice “il resto è silenzio” ma per dire “il tutto è silenzio”. Che il suono sovrasta, la voce, il rumore, senza strapparlo o interromperlo. “Non c’è nulla di più rumoroso del silenzio di Dio”, lo stesso Sini conclude. Ognuno lo può “vedere” nel “Grande silenzio” (“Die Große Stille”), il film tedesco del 2005 sulla vita di trappa, di Philip Gröning.
Una rete, una tessitura, che ancora Sini alla fine addita come fine fondo alla parola di verità, quella  del filosofo, quale egli è: “La virtù prima del filosofo non è la parola, ma l’ascolto… è infatti nel silenzio e dal silenzio che l’io, il mondo e la parola emergono, tra loro originariamente uniti”.”. Sulla traccia di Merleau-Ponty, che al filosofo dà il compito di “prendere in considerazione la parola prima che sia pronunciata, sullo sfondo del silenzio che la precede, che non cessa di accompagnarla e senza il quale essa non direbbe nulla” - di “rendersi sensibili a quei fili di silenzio di cui il tessuto della parola è intramato”.
Il saggio si pubblica da parte di un’Accademia del Silenzio, che a Milano dove ha sede ha un certo numero di aderenti e un vasto programma in una dozzina di punti, ideati e animati da Duccio Demetrio e Nicoleta Polla-Mattiot. Ma con o senza smartphone, che per lo più è silenzioso, benché  pullulante di app, o vasti programmi, e quindi ineliminabile? Perché silenzio significa distacco, dalla società “rumorosa” più che dal suono. E forse è definitivamente obliterato dalla moderna società della conoscenza, molto discreta da questo punto di vista. “Il vero segreto di Stato è il silenzio”, dicono le vittime delle stragi, i parenti. Falso: il vero segreto sono le parole, troppe. “In fondo, lo scopo del teatro è un silenzio udibile”, confida a Fazio Albertazzi, che a 90 e passa anni se ne intende, sotto le (tante) parole.
Il testo francese è un lungo sfogo, dettagliato, di uno, come tutti, vittima dei rumori, sempre molesti. Per la vita che da un secolo e mezzo è cambiata, col motore a scoppio, l’elettricità, e l’affluenza generalizzata. Ma forse, più che altro, per la maleducazione che si accompagna alla società dei diritti, nella vita in condominio.
Il vecchio libro di Rovatti, una raccolta di articoli, è da questo punto di vista insorpassato, che il silenzio vorrebbe anche in filosofia. Dopo aver camminato a lungo per le vie, in mezzo alla gente, alle cose e ai segnali, ho voglia di isolarmi dal rumore: cerco un luogo tranquillo per riposare, rilassarmi, pensare; per non pensare a niente, svuotarmi i sensi e la testa; per concentrarmi, smettere di sentire, cominciare ad ascoltare”, etc. etc, molto idilliaco. Il filosofo ama ascoltare, e dunque deve poter sentire: “Questa condizione di silenzio e di solitudine mi permette di ritrovare una percezione di me e del mondo che mi sta attorno, precisamente un ascolto. Il silenzio che mi sono procurato, isolandomi dai rumori normali, mi permette di ascoltare. Ma è piuttosto un pensare, un ascolto pensante. Come se prima fosse stato l’esterno a riempire la mia esperienza, e invece adesso esterno e interno agissero in me corrispondendosi. E forse è proprio questo gioco, grazie al quale interno ed esterno passano l’uno nell’altro senza appiattirsi o riassorbirsi l’uno nell'altro, che mi fa sentire e pensare assieme”. Ma, pur volendo il silenzio un antidoto all’“anomalo gonfiamento dell’Io”  da Jung deprecato, conclude: “Mi accorgo che in questo rilassarmi ho lasciato essere una dimensione di apertura della mia esperienza che di solito è messa a tacere”.
L’Io deprecato è la condizione postmoderna, cioè di molta filosofia. A meno del silenzio esicasta.  
Rovatti esclude dal suo silenzio la contemplazione, l’ignaziano ritiro spirituale, la trappa. Volendosi, qui come in altra sede, uno “per fortuna” immune alla religione. Ma il suo “silenzio” è esicasta, di chi parla di sé (di Dio) a se stesso.
Carlo Sini, Il gioco del silenzio, Mimesis, pp. 41 € 3,90
Jean-Michel Delacomptée, Petit éloge des amoureux du silence, Folio, pp. 134 € 2
Pier Aldo Rovatti, L’esercizio del silenzio, Cortina, pp. 134 € 11

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