“È
deplorevole che la maggioranza degli etnologi preferisca recarsi in Papua-Nuova
Guinea piuttosto che a Bruxelles”, Enzensberger deplora a metà della sua
riflessione. Lui ha scelto Bruxelles e ha in mano un forte reperto
antropologico, benché contemporaneo: l’Europa ottusa. Un mostro anzi, sotto gli
occhi di tutti, anche se non lo si vuole vedere.
Enzensberger
ha “scoperto” Bruxelles nel 2010, retribuito e stimolato dalla fondazione
Sonning di Copenaghen e dal Prix de Littérature Européenne di Cognac, due organismi
culturali interessati evidentemente a riprendersi l’Europa, a salvarla. Il
referto è esilarante, seppure contro le intenzioni – le intenzioni di quella
specie di selvaggi che sono i burocrati di Bruxelles. Detti così, burocrati,
sembrano niente. Ma basta scorrerne le normative, sulla “forma ideale” dei
cetrioli, o dei sedili di trattore, o della tazza del gabinetto, per
preoccuparsi. O pensare al nome di cui si adornano, commissari: i commissari sono politici, o di polizia, e
sempre l’antitesi dell’eletto. O dare un’occhiata ai loro “esecutivi”. Per esempio
a quello della Politica estera e di difesa, che in realtà l’Europa non fa –
salvo pretendere di allargarsi fino ai confini con l’Afghanistan: con un
presidente, una baronessa inglese, una vera, del tutto incapace, sedici o
diciassette vice, varie commissioni e consulenze, e una serie di rappresentanze
all’estero, costose come un’ambasciata, senza alcuna funzione.
Basterebbe
riflettere al cieco “uniformismo”, che è il cuore, insensibile, delle
burocrazie. Ed è all’origine della fine dell’Europa: “Bastano gli strumenti
della teoria dei sistemi. Secondo la quale la riduzione della complessità, da perseguire
con la Comunità economica, genera inevitabilmente nuove complessità”. Uno
ghiommero. Svolto e riavvolto da quindicimila lobbisti. Il cui risultato è il
mostro più mostro di tutti, l’Acquis communautaire, 150, forse 200 mila
pagine di direttive e regolamenti. E non è tutto: l’Eur-Lex, la banca dati
normativa, registra un milione e 400 mila testi di cui il cittadino comunitario
deve tenere conto.
Sono
testi obbligatori come una legge senza mai essere stati votati. È qui la radice
della disaffezione, un potere avulso e remoto. Si spiega che solo il 40 per
cento degli europei considerasse positiva l’appartenenza del suo paese
all’Unione Europea, nel 2010 – e oggi? Alle precedenti Europee, peraltro, ha votato
solo il 43 per cento degli aventi diritto.
Enzensberger
si diverte anche a sovvertire la storia, riportando l’Unione Europea a
Churchill. E a un Churchill già fuori dalla politica, trombato dagli elettori
inglesi. Al discorso di Fulton (quello della “cortina di ferro”) il 5 marzo
1946, poi di Zurigo, sei mesi dopo, e nel 1948 al Congresso dell’Aja per
l’Unificazione Europea, organizzato dal genero Duncan Sandys e da lui
presieduto. Non senza ragione. A Zurigo Churchill disegnò anche l’“asse”
franco-tedesco: “Dobbiamo costruire una specie di Stati Uniti d’Europa… Il
primo passo pratico sarà l’istituzione di un Consiglio d’Europa. E in questo
urgente compito la guida dev’essere assunta dalla Francia e dalla Germania” –
per finire evangelico: “Europa risorgi!”, let Europe arise.
Hans
Magnus Enzensberger, Il mostro buono di Bruxelles, Einaudi, pp. 99 € 10
Ma,
poi, si dice Bruxelles per non dire Europa, la Germania cioè, la Francia,
l’Italia eccetera. Enzensberger avrebbe dovuto fare di più: una vera critica
europea, non solo per ridere, sarebbe andata alla radice della disaffezione: il
ritorno della vecchia politica degli interessi nazionali, di cui la Germania è
alfiere.
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