Autobio – Da quando, bambino, leggeva il
giornale inventandoselo agli analfabeti di casa, “da allora niente mi ha divertito
di più che spiegare agli altri ciò che io stesso non comprendo: è un piacere,
che non mi ha più abbandonato”, scriveva ai trent’anni. È detto con la cifra
migliore di Montanelli, l’ironia, seppure sempre in selfie. Ma fa giustizia della letteratura del ricordo. E più dei
ricordi della prima età, e del buon
tempo antico.
Candido – Dovrebbe far ridere dall’inizio alla
fine, ma Voltaire non fa ridere. Neanche in “Zadig”. I suoi scherzi hanno un
fondo di cattiveria. Non di amarezza, di asprezza.
Intellettuale
–
Il Settecento ha creato il ruolo, da Parigi a Pietroburgo, la Rivoluzione
presto l’ha cancellato. Ma ne è rimasto l’alone, per nostalgia e per
convenienza, come di un buon re deposto.
Anzi, per questa ambivalenza sempre più se ne è rafforzata la fama, come
di cosa viva e attiva. Nel Settecento si era modellato su Tartufo – grande
intellettuale, quello di Molière.
Si può dire il Tartufo di Molière
anticipatore diretto, se non modello, di vari Dostoevskij, di Naphta, o Adrian Leverkühn,
come di Ulrich e gli altri alter ego di Musil.
Joyce
–
“Una trapunta di handicap: dell’uomo in primo luogo – viziato dal rapporto con
la madre permissiva, con il padre «il più frivolo degli uomini», vezzo che
avrebbe gravemente ereditato, nel rapporto con Nora, di squallore non comune..;
dal non confronto con gli altri grandi della sua stagione, precauzione forse
giustificata ma che lo penalizza, perché dimostra che non era cieco solo dagli
occhi del corpo; dall’imbarazzante panache con cui sfruttava gli altri, tutti
gli altri, ai propri fini; dell’epoca – postbellica, revanscista, micragnosa e
via scadendo d’attributi; dell’ambiente – asfittico irlandese sì ma bloccato
deliberatamente a quello stadio quanto basta, quanto occorre alle pretese
dell’autoesiliato, l’esilio una categoria tagliata su misura, come gli abiti
costosi e piuttosto pacchiani che faceva sempre pagare a qualcun altro”. Un “ex
voto eroico che ci hanno propinato per decenni agiografi timorati, restii a mettere
confronto vita e opere, testo e traduzione”. Ottavio Fatica, che in quanto
traduttore esimio dall’inglese si può dire intimo di Joyce, s’imbizzarrisce
costernato in “Giacomo Giacomo”, la nota che premette alla sua ultima fatica,
la traduzione di “Finn’s Hotel”, di tanta mediocrità. Ma “il bello è che
l’opera, malgrado tutto, se non proprio per quello, tiene”.
La costernazione è del vissuto e anche
del vivente, il linguaggio. Inventivo, dice Fatica, ma per la tangente, cose a
cui tutti siamo buoni - e più gli spensierati, si può aggiungere: i gigioni, i goliardi.
Sì, al “ritmo di metronomo faubertiano da lui tanto pregiato e coltivato”, ma
uno che raccoglie in superficie: Joyce non è “il «prodigioso lettore» che hanno
voluto farci credere, bensì un piluccatore”. Uno “quanto mai avvertito”, ma
“non fa che piluccare tutto il tempo, dappertutto”.
Questo Joyce di Fatica, sua ombra o
nubendo obbligato, potrebbe essere un Dario Fo senza la mimica, un Petrolini
senza la dizione. Senza offesa, né per U. Eco, né per Derrida.
Lettore – È l’Incantato
del presepio: le parole devono fluirgli davanti come le stelle mobili in cielo,
inaccessibili e splendenti, benché in se fredde e aride.
Lettura
–
Si farà sul kindle o altro lettore ottico come fino a ora si è fatta sulla
pagina stampata. È possibile, il kindle è più pratico, anche molto di più. Ma
non sarebbe una rivoluzione, sempre sarebbe una lettura individuale, come quella
che è invalsa del libro a stampa in numero illimitato di copie, silenziosa,
anzi muta.
Anche la lettura silenziosa, peraltro, è
novità recente. In sant’Agostino si trova registrata la sua meraviglia quando
si recò a trovare sant’Ambrogio a Milano: il vescovo leggeva “silenziosamente,
solo con gli occhi e con la mente, senza emettere alcun suono, senza neppure
muovere le labbra”, e questo era una novità totale, leggere “senza pronunciare
le parole”. Nel racconto più divertente di Montanelli, “Mi chiamo Indro” (ora
in “La mia eredità sono io”), la nonna leggeva il giornale, nel 1913-1914 ad
alta voce – tanto che il bambino Indro, memorizzando la lettura, poteva poi far
finta di saper leggere, sempre ad alta voce. Dai salesiani, ancora
cinquant’anni fa, la prima metà del pasto nel refettorio si svolgeva in
silenzio, ascoltando quindici-venti minuti di lettura ad alta voce di un
romanzo ameno, effettuata a turno su un piccolo pulpito.
.
Metastasio
–
Vittima esemplare dell’italianità: deprezzamento, poca applicazione,
disattenzione, Peggio per l’italiano emigrato, dell’esterno o dell’interno, che
non fa camarilla?
Stendhal lo metteva con Shakespaere. Il
“dilettante” al solito esagerava, ma non senza fondamento. Nell’appunto “Il
comico di Shakespeare”, 24 novembre 1816, a proposito della gaiezza sventata
delle ragazze, contagiosa (“lungi dal ridere di esse simpatizziamo con uno
stato così delizioso), annota che Shakespeare, “per far nascere questa dolce illusione,
impiega spesso l’artificio del Metastasio”.
L’accostamento è un errore cronologico,
di chi viene prima e chi dopo, ma l’artificio è proprio metastasiano: “È del
tutto naturale che un’anima tenera che non si lascia respingere dall’ignobile,
preferisca il Re di Cuccagna al Misantropo”, lo svago alla cupezza.
Pasolini
–
All’inaugurazione della mostra di fotografie su e di Paolini, al Palazzo delle
Esposizioni a Roma, c’era una folla sterminata e tumultuosa, come a una partita
della Roma. Lo stesso i giorni successivi. È vero che gi organizzatori hanno
puntato sui giorni festivi e di ponte – la mostra si inaugurava il 16 aprile Ma
più perché Pasolini è un fenomeno di culto.
Silone
–
Si vuole ultimamente un uomo dalla doppia vita, a opera degli storici Mauro
Canali e Dario Biocca. I quali sostengono che Silone fu per un periodo
informatore dell’Ovra, la polizia politica di Mussolini, a danno del Pcd’I, poi
Pci, di cui era stato parte. Non è una cosa che gli sarebbe piaciuta: la doppia
vita sarebbe anzi dispiaciuta a Silone, che in tutto rispondeva al suo nome
anagrafico, Secondo Tranquilli, benché abbia sempre preso decisioni coraggiose.
Ma soprattutto non va con i canoni della spia. Della spia interna, nella vita
vissuta ogni giorno nell’abitudinarietà, non nell’“azione” progettata o eroica
come un atto di guerra.
Questo è un tema, della spia interna,
che la storiografia delle spie durante il regime (così come ora quella tedesca
a proposito della Stasi nella Germania Est) affronta con un forte limite: fa
dello spionaggio interno un atto deliberato e organizzato (amministrato) come
il controspionaggio o spionaggio esterno. Mentre il rapporto del cittadino con
la polizia è sempre bidirezionale, prima che ambiguo. C’è il delatore, la spia
per carattere o prezzolata, e c’è l’informatore. Una figura non
contrattualizzata, e molto vasta: dal denunciatore alla voce traudita, e fino
alla vanteria dell’informatore immaginario, inesistente anche se “affidabile”.
Il poliziotto politico deve avere
contatti. Al limite se li inventa, ma ha sempre mille modi di procurarseli,
perché ha in Italia possibilità illimitate di coartare il comune cittadino. Il
quale o si difende dai soprusi con la prigione, i pochi, oppure simula
l’amicizia. È una partita a bassa intensità, senza grandi soprusi o tradimenti,
con benefici per entrambi i contendenti: il poliziotto, che è sempre un burocrate,
fa valere le sue numerose frequentazioni come confidenze, e il cittadino con
quattro chiacchiere si protegge, avrà qualcuno che non può rifiutargli un favore.
letterautore@antiit.eu
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