mercoledì 7 maggio 2014

Letture - 171

letterautore

Autobio – Da quando, bambino, leggeva il giornale inventandoselo agli analfabeti di casa, “da allora niente mi ha divertito di più che spiegare agli altri ciò che io stesso non comprendo: è un piacere, che non mi ha più abbandonato”, scriveva ai trent’anni. È detto con la cifra migliore di Montanelli, l’ironia, seppure sempre in selfie. Ma fa giustizia della letteratura del ricordo. E più dei ricordi della prima età,  e del buon tempo antico.

Candido – Dovrebbe far ridere dall’inizio alla fine, ma Voltaire non fa ridere. Neanche in “Zadig”. I suoi scherzi hanno un fondo di cattiveria. Non di amarezza, di asprezza.

Intellettuale – Il Settecento ha creato il ruolo, da Parigi a Pietroburgo, la Rivoluzione presto l’ha cancellato. Ma ne è rimasto l’alone, per nostalgia e per convenienza, come di un buon re deposto.  Anzi, per questa ambivalenza sempre più se ne è rafforzata la fama, come di cosa viva e attiva. Nel Settecento si era modellato su Tartufo – grande intellettuale, quello di Molière.
Si può dire il Tartufo di Molière anticipatore diretto, se non modello, di vari Dostoevskij, di Naphta, o Adrian Leverkühn, come di Ulrich e gli altri alter ego di Musil.

Joyce – “Una trapunta di handicap: dell’uomo in primo luogo – viziato dal rapporto con la madre permissiva, con il padre «il più frivolo degli uomini», vezzo che avrebbe gravemente ereditato, nel rapporto con Nora, di squallore non comune..; dal non confronto con gli altri grandi della sua stagione, precauzione forse giustificata ma che lo penalizza, perché dimostra che non era cieco solo dagli occhi del corpo; dall’imbarazzante panache con cui sfruttava gli altri, tutti gli altri, ai propri fini; dell’epoca – postbellica, revanscista, micragnosa e via scadendo d’attributi; dell’ambiente – asfittico irlandese sì ma bloccato deliberatamente a quello stadio quanto basta, quanto occorre alle pretese dell’autoesiliato, l’esilio una categoria tagliata su misura, come gli abiti costosi e piuttosto pacchiani che faceva sempre pagare a qualcun altro”. Un “ex voto eroico che ci hanno propinato per decenni agiografi timorati, restii a mettere confronto vita e opere, testo e traduzione”. Ottavio Fatica, che in quanto traduttore esimio dall’inglese si può dire intimo di Joyce, s’imbizzarrisce costernato in “Giacomo Giacomo”, la nota che premette alla sua ultima fatica, la traduzione di “Finn’s Hotel”, di tanta mediocrità. Ma “il bello è che l’opera, malgrado tutto, se non proprio per quello, tiene”.
La costernazione è del vissuto e anche del vivente, il linguaggio. Inventivo, dice Fatica, ma per la tangente, cose a cui tutti siamo buoni - e più gli spensierati, si può aggiungere: i gigioni, i goliardi. Sì, al “ritmo di metronomo faubertiano da lui tanto pregiato e coltivato”, ma uno che raccoglie in superficie: Joyce non è “il «prodigioso lettore» che hanno voluto farci credere, bensì un piluccatore”. Uno “quanto mai avvertito”, ma “non fa che piluccare tutto il tempo, dappertutto”.
Questo Joyce di Fatica, sua ombra o nubendo obbligato, potrebbe essere un Dario Fo senza la mimica, un Petrolini senza la dizione. Senza offesa, né per U. Eco, né per Derrida.  

Lettore – È l’Incantato del presepio: le parole devono fluirgli davanti come le stelle mobili in cielo, inaccessibili e splendenti, benché in se fredde e aride.

Lettura – Si farà sul kindle o altro lettore ottico come fino a ora si è fatta sulla pagina stampata. È possibile, il kindle è più pratico, anche molto di più. Ma non sarebbe una rivoluzione, sempre sarebbe una lettura individuale, come quella che è invalsa del libro a stampa in numero illimitato di copie, silenziosa, anzi muta.
Anche la lettura silenziosa, peraltro, è novità recente. In sant’Agostino si trova registrata la sua meraviglia quando si recò a trovare sant’Ambrogio a Milano: il vescovo leggeva “silenziosamente, solo con gli occhi e con la mente, senza emettere alcun suono, senza neppure muovere le labbra”, e questo era una novità totale, leggere “senza pronunciare le parole”. Nel racconto più divertente di Montanelli, “Mi chiamo Indro” (ora in “La mia eredità sono io”), la nonna leggeva il giornale, nel 1913-1914 ad alta voce – tanto che il bambino Indro, memorizzando la lettura, poteva poi far finta di saper leggere, sempre ad alta voce. Dai salesiani, ancora cinquant’anni fa, la prima metà del pasto nel refettorio si svolgeva in silenzio, ascoltando quindici-venti minuti di lettura ad alta voce di un romanzo ameno, effettuata a turno su un piccolo pulpito.
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Metastasio – Vittima esemplare dell’italianità: deprezzamento, poca applicazione, disattenzione, Peggio per l’italiano emigrato, dell’esterno o dell’interno, che non fa camarilla?
Stendhal lo metteva con Shakespaere. Il “dilettante” al solito esagerava, ma non senza fondamento. Nell’appunto “Il comico di Shakespeare”, 24 novembre 1816, a proposito della gaiezza sventata delle ragazze, contagiosa (“lungi dal ridere di esse simpatizziamo con uno stato così delizioso), annota che Shakespeare, “per far nascere questa dolce illusione, impiega spesso l’artificio del Metastasio”.
L’accostamento è un errore cronologico, di chi viene prima e chi dopo, ma l’artificio è proprio metastasiano: “È del tutto naturale che un’anima tenera che non si lascia respingere dall’ignobile, preferisca il Re di Cuccagna al Misantropo”, lo svago alla cupezza.

Pasolini – All’inaugurazione della mostra di fotografie su e di Paolini, al Palazzo delle Esposizioni a Roma, c’era una folla sterminata e tumultuosa, come a una partita della Roma. Lo stesso i giorni successivi. È vero che gi organizzatori hanno puntato sui giorni festivi e di ponte – la mostra si inaugurava il 16 aprile Ma più perché Pasolini è un fenomeno di culto. 

Silone – Si vuole ultimamente un uomo dalla doppia vita, a opera degli storici Mauro Canali e Dario Biocca. I quali sostengono che Silone fu per un periodo informatore dell’Ovra, la polizia politica di Mussolini, a danno del Pcd’I, poi Pci, di cui era stato parte. Non è una cosa che gli sarebbe piaciuta: la doppia vita sarebbe anzi dispiaciuta a Silone, che in tutto rispondeva al suo nome anagrafico, Secondo Tranquilli, benché abbia sempre preso decisioni coraggiose. Ma soprattutto non va con i canoni della spia. Della spia interna, nella vita vissuta ogni giorno nell’abitudinarietà, non nell’“azione” progettata o eroica come un atto di guerra.
Questo è un tema, della spia interna, che la storiografia delle spie durante il regime (così come ora quella tedesca a proposito della Stasi nella Germania Est) affronta con un forte limite: fa dello spionaggio interno un atto deliberato e organizzato (amministrato) come il controspionaggio o spionaggio esterno. Mentre il rapporto del cittadino con la polizia è sempre bidirezionale, prima che ambiguo. C’è il delatore, la spia per carattere o prezzolata, e c’è l’informatore. Una figura non contrattualizzata, e molto vasta: dal denunciatore alla voce traudita, e fino alla vanteria dell’informatore immaginario, inesistente anche se “affidabile”. Il poliziotto politico deve avere contatti. Al limite se li inventa, ma ha sempre mille modi di procurarseli, perché ha in Italia possibilità illimitate di coartare il comune cittadino. Il quale o si difende dai soprusi con la prigione, i pochi, oppure simula l’amicizia. È una partita a bassa intensità, senza grandi soprusi o tradimenti, con benefici per entrambi i contendenti: il poliziotto, che è sempre un burocrate, fa valere le sue numerose frequentazioni come confidenze, e il cittadino con quattro chiacchiere si protegge, avrà  qualcuno che non può rifiutargli un favore. 

Traduzione L’incomunicabile è una miniera per la semiologia e la filologia, due scienze dell’inafferrabile. Ma nel traduttore, che è a suo modo autore, anche lui cioè padrone delle parole, può indurre nausea e sdegno.

letterautore@antiit.eu

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