“L’Europa non è
mai esistita, non ci sono stati che spiriti europei”. Oppure, e siamo alla
fine, “l’Europa è morta del privilegio culturale – la cultura da un lato, la
vita degli uomini dall’altro – questa schizofrenia non poteva mancare di finire
in crisi assassine”. È un fatto, si può cominciare da qui: l’Europa è una
cortigiana (non) onesta - una delle tante, se ce n’erano trecento, secondo
Kant, censite dal Concilio di Trento Ma questo, benché molto italianato e
italianista, non è un romanzo per ridere.
È un viaggio
picaresco nel passato, alla maniera dell’“Orlando” di V.Woolf, comprimendo il
Tempo nel presente, in slittamenti della personalità. Un dramma della storia e
di una persona, forse l’autore stesso in controluce, affrontato comunque con
leggerezza: “Non ho il diritto di sottrarmi alla leggerezza”, dice il
personaggio principale, ambasciatore di Francia a Roma, “fu una virtù
francese”. E un omaggio all’Italia, unico per familiarità e naturalezza, in
molte pieghe che l’Italia stessa ignora o trascura – Apostolo Zeno e il
“Giornale dei letterati”, o “l’’abate Giacoppo Rebellini che trattava Voltaire
e Rousseau da «nemici di Dio e della società»”, o “le nozze della Ford con la
Fiat” già nel 1971 – l’anno di pubblicazione del romanzo. Un omaggio alla
storia e al modo d’essere, alla luce ai colori, ai sapori. Con l’elogio del
riserbo, dietro l’espansività, virtù italiana utile contro l’incontinenza già
allora “invasiva”.
La storia sarebbe
semplice: un legame intensissimo, senza essere (forse) fisico, anzi a distanza.
Declinata al modo immateriale dello spiritismo, fra ectoplasmi, e nel loro
tempo apocalittico, che oscilla fra l’ieri e il domani. Ma una storia senza
personaggi in realtà, piuttosto di emblemi, per un senso opprimente della
Storia. O “saviniani”, personaggi “senza spessore”, per la “profondità” del
superficiale, dell’assenza di profondità. Ambiziosi, seppure coscienti dei
limiti di una narrazione – “«Guerra e pace»”, si dirà Gary nella prefazione
americana nel 1978, “non ha fatto incomparabilmente più per la letteratura che
contro la guerra?”
Di scrittura
accentuatamente settecentesca, voluttuosa, spiritosa – Choderlos de Laclos si
nomina più volte, e ai “Legami pericolosi” è dedicata la pagina centrale. Con
innumerevoli calchi: “Bisogna saper inventare il passato. È così che il
presente e il futuro si creano”, “La fine di una civiltà è anzitutto la
prostituzione del suo vocabolario”, “Quando si è intrisi di cultura, si esce
sempre puliti dalle pattumiere”, “Non c’è, purtroppo, un diavolo per comprare
la nostra anima”, i Faust-Faustus sono “una serie di truffatori, impostori,
bari, piccoli traffichini che promettono sempre e non consegnano mai”. “Proust
si sarebbe annegato in una goccia d’acqua”. “Il fascismo? Il nazismo? Una
demistificazione dell’uomo. Un momento di verità. Del realismo”. Per una storia
di parvenze ma di forte, perfino eccessiva, presenza. Allargata ai bari (il
Destino) e agli ladri.
Danthès, l’ambasciatore,
è Dante, “quasi il suo omonimo”, mezzo poeta della selva oscura, e mezzo d’Anthès,
“l’uccisore di Puškin” – con uno spruzzo di moschettiere. Anch’egli
protoplasmico: s’innamora di una giovane, che poi è – gli appare, è lo stesso –
un fantasma, come l’Europa a cui ha dedicato la vita e la carriera, “una
vecchia e cinica fattucchiera”. I due piani sono mescolati, purtroppo per 500
lunghissime pagine, ma non senza godimento alla lettura – a tratti sembra perfino
di leggere il giornale, oggi.
L’Europa dei prezzi e delle monete
Danthés, la cui
vita professionale è dedicata all’Europa, vive in uno stato di “sogno vigile”.
L’Europa non se la passa bene, l’Europa contemporanea “dell’economia, dei
prezzi e delle monete”. Siamo a settembre, è appena trascorso l’agosto 1971,
dell’inconvertibilità del dollaro, una crisi “nel corso della quale il ministro
tedesco Schiller aveva ritrovato fin nei pugni sul tavolo, i toni e le scenate,
tutta l’arroganza tradizionale del nazionalismo con stivali e chiodo”. L’Europa
è già morta: “Il senso di abbandono, senza vergogna e questa volta senza
ipocrisia, emerse nella stampa, nei giorni comici che avevano seguito
l’annuncio della non convertibilità del dollaro: gli editoriali dei giornali parlavano
a gara del «fallimento dello spirito europeo», come se poteva esserci qualcosa
in comune tra quello spirito e l’Europa dei mercati, delle società anonime e
dei prezzi di realizzo”.
Lo svolgimento è una
febbre, uno stato allucinatorio. Nell’atmosfera lattiginosa, fuori del tempo, di
Venezia, e del lago Trasimeno trasposto alle porte di Firenze - una Firenze nel
caldo di agosto (provare per credere: tutto va in fumo). Di sonni-sogni
“abortiti” – “ciò che permette ai sogni di esistere è il risveglio”. Per primo
quello dell’Europa. In una con (o simboleggiata da) l’amore, che forse non ci
fu della madre, e ora della figlia, che potrebbe essere la propria figlia. In
uno stato opprimente – ineluttabile - e evanescente, “uno di quei sonni astuti
in cui si sogna che non si dorme”. In cui ogni personaggio si fa i suoi
personaggi, in un gioco di scacchi, e di specchi o quinte: li fa apparire e
sparire, parlare, purtroppo sempre forbito, e agire. E qui non senza
conseguenze, per l’irreversibilità dell’azione, per quanto modesta, un incidente
di macchina, non mortale, una caduta dalla bici – il piatto rotto che non si
ricompone.
Una storia di
deliri, in cui ogni personaggio trasmuta in continuazione, in un slittamento
continuo tra realtà e apparenza, come un trompe-l’oeil
caleidoscopico, in costante dissolvenza. Insistito, anche disinvolto, ma è
forse la storia che più Gary sente propria, un autore che nel 1945, dimesso dal
lager, aveva titolato il suo primo romanzo
“Un’avventura europea”: un romanzo politico – storico nel senso della politica
(l’editore la chiama “la sua favola brillante”). Una lamentazione sregolata,
tristissima, dell’Europa che non fu e non è. Che avrebbe meritato la misura del
racconto, ma Gary ha voluto estenuare in innumere ripetizione, come per un’ira
incontenibile, per una volta forse affabulatore sincero.
L’Europa dei Lumi e delle lucciole
La storia d’amore
è piuttosto dell’Europa: è un romanzo politico, seppure in forma onirica, di
visione, di sogno insonne. Con umori tuttavia non sopiti - per tutti del
francese vs. il tedesco: “In Germania l’Europa non ha mai significato
nient’altro che la Germania”. Sotto forma di una partita a scacchi, seppure in
un quadro di poetic justice, come
dice l’inglese, in cui il vizio viene punito e la virtù premiata. Più d’una, le
più audaci che gli scacchi abbiano memorizzato. Una partita tuttavia di dispersi,
di perdenti. Una rappresentazione gotica dell’Europa, seppure alla luce chiara
della Toscana. In “un mondo di rovine volato a pezzi irreparabilmente”,
l’Europa in un’epoca in cui “don Giovanni si sarebbe tirato un colpo in testa”.
Ma allora una storia preveggente, quasi profetica, dell’Europa che annega
nell’età dell’Acquario. Una trenodia profetica, nel 1971, dell’Europa all’ingrosso
e al minuto – comprese le lucciole, a più riprese, che poi tanta fortuna
avranno, a partire dal “secolo dei Lumi e delle «lucciole»”.
La colpa
dell’Europa di Gary è se si vuole veniale: vivere, avere vissuto, al di sotto
delle aspettative che ha creato. Ma quanto mefistofelismo in nome dei suoi
“ideali”. Un romanzo “strano”, riconosce l’autore nella prefazione americana. A
cui però teneva: “Dire che l’Europa non esiste e non è mai esistita” è una
bestemmia, ma serve a “esprimere in un’opera di finzione la frattura
schizofrenica tra cultura e realtà”.
Romain Gary, Europa, Folio, pp. 496 € 9.40
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