L’Italia ha un salario
minimo? No. Paga venti euro a Roma molti giornalisti laureati, e quindi professionisti?
Sì. Venti euro al giorno. Paga 300 euro, al mese, cultori della materia e borsisti
per l’insegnamento, esami compresi, in molte facoltà universitarie? Sì. Ha bloccato la contrattazione e il salario
dei dipendenti pubblici, ormai da sette anni? Sì. Ha, da sette anni ormai, all’università
da dieci, o dodici, il blocco del turnover dei dipendenti pubblici e dei
professori? Sì. Si può licenziare in Italia? Sì, senza giusta causa: basta chiedere
lo stato di crisi, che viene dato a chiunque, anche aziende ricche di dividendi - quanti giornalisti (non) sono stati licenziati così? L’Italia ha il più alto numero di partite Iva e di ex cococo in Europa? Sì. Che
si vuole di più? Di quali “riforme” aprano i conduttori Rai e i giornali? I giornalisti
non parlano con i giornalisti? Riscrivono il già scritto? Non sanno di che
parlano?
Il riformismo è fatto
serio, e non è il suo il primo “tradimento” del linguaggio nell’opinione
pubblica. Ma è il più irritante. E anche nocivo: che riforme deve fare l’Italia?
L’Italia ha le banche
meglio governate d’Europa? Sì. L’Italia ha l’età pensionabile più alta? Sì. L’Italia
ha il record della tasse in Europa e altrove? Sì. L’elenco delle “virtuosità”
dell’Italia potrebbe continuare. Allora di che “riforme” da fare si parla? A
meno che non sia l’allitterazione che fa aggio, effe-effe, riforme da fare.
L’unica riforma da fare
è quella di cui non si parla: considerare tutti questi primati non virtuosi ma
mostruosi. Poiché conclusi nella recessione, che l’Italia ha più grave di ogni
altro Paese industriale. E non da ora: è dal 1992, da quando ha preso a
licenziare e decontrattualizzare in massa, che l’Italia, l’economia, non
cresce.
Nessun commento:
Posta un commento