Una serie
di immagini tutte in vario modo memorabili, anche il semplice taglio dei visi.
Una regia inconsueta nel cinema italiano, che ha inondato di lirismi l’immaginario
dei critici. Ma su un soggetto ben storicizzato: una famiglia-comune di
fricchettoni, residuo degli anni 1970, non più fumati e anzi convertiti al
lavoro sui campi, ecocosciente, piena di figlie, che s’incontra col mondo
nuovo, se possibile più povero e più cialtrone, della televisione commerciale.
Per il resto avulso dal contesto: niente scuole, maestri, vicini, paesi. Solo il
lago Trasimeno, che il fango, la fatica, i sudori di queste “Meraviglie”
addolcisce.
Un’utopia-distopia,
come tutte le utopie abortite, seppure proiettata nel passato. Con alcunché di
storico, e forse di autobiografico – il proprio padre della regista, tedesco, è
stato apicoltore transumante. Una forte caratterizzazione, che apparenta “Le meraviglie”
a Pasolini. Al filone “povero” del suo cinema e forse il suo più innovativo e gravido:
“La Ricotta”, “Uccellacci e uccellini”, lo stesso “Vangelo”. In tutti i suoi
linguaggi: la parola, la psicologia, l’immagine. Non un calco, però, né un
prodotto di scuola, ma una lezione felice (riuscita), un esercizio di maestria.
Alice
Rohrwacher, Le meraviglie
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