Un libro
per gli amici, nel ricordo dei vent’anni estivi in Valcamonica di un gruppo di
romani del quartiere e la parrocchia di Monteverdevecchio, anno 1987 circa. Un
non evento. E tuttavia: De Luca apre con D’Arrigo, “Horcynus Orca”, sul fascino
della parola, e dà di fondo con Gadda. Non alla maniera di, ma con la stessa
libertà (padronanza) dei linguaggi, di repertorio e inventati, di toni, alti e
bassi, di volute e velature, di sorrisi e nefandezze. Benché sul niente: spintoni, gavettoni, ascese,
all’Avio, discese, docce rubate, cibi sottratti, battutacce tra ragazzi, e l’occhio
di riguardo alle ragazze, che ne sono comunque fuori – le “tempeste ormonali”
si riducono alla lettura delle poesie di Neruda, “nell’edizione sgargiante
arancione rosso tendente dei Grandi Economici della Newton”.
Non un’esperienza
eccezionale, prima di Bossi, a Ponte di Legno. Anzi, quanto di più
disappetente. Con un distinto profumo di oratorio: nel sottotitolo, “L’estate
andavamo a Temù”, e nella prefazione del Superiore dei Concezionisti, allora
giovane prete esiliato a Roma, che quel campo annualmente organizzava nella sua
terra. E tuttavia, anche la storia regge: c’è commistione di corpi e anime, gli
ormoni ci sono, sia pure in licenza alla “konditoreia” di paese, con molta
musica, in tutte le declinazioni, De André meglio di mons. Frisina, in una rappresentazione
gaddianamente fisica, con meno sgorbi forse, ma con in più i prati, i picchi
(un pezzo di bravura: in cima, in premio, c’è… un cannone, un – piccolo – buco nero),
i sudori, le chitarre scordate, il dialetto camuno remoto.
Una
sorpresa e un godimento. Soprattutto per l’equilibrio espressivo, che Gadda avrebbe
apprezzato. Dell’invenzione linguistica e variabilità sintattica sempre controllate,
con lo stessa oculata misura se non abilità dell’Ingegnere. Un esperimento. De
Luca non è al debutto, ha all’attivo altre prose. Ma una ripartenza, felice, liberata.
E già un risultato – un esercizio stupefacente anzi, tanto più per la tenuità
dell’aneddoto. Che anzi si potrebbe mettere anch’essa nel conto di
Gadda. Che impiantava riboboli e sfarfallii di preferenza sulla domesticità, e di
questo esercizio De Luca è stupefacente padrone. Al punto da farsene anche un selfie, non volendo, a p.42, a proposito
della “preghierina” serale: “E invece no, noi cercavamo sempre di metterla in
modo di stupire l’auditorio riunito lì nella sala del bosco a cerchio definita
a declamare gli elaborati mistici…”. Senza condiscendenze: “La solitudine ci
separava l’uno accanto all’altro”. Al sapore di goliardia a volte – che pure c’è
nell’Originale. Senza le paturnie – ma ci vogliono le paturnie per fare Gadda?
per la memorialistica forse, di epigoni psicotici, in proprio o a contagio
volontario, Gadda è a prescindere. Un
atto di coraggio, quasi una sfida. Ma con la stessa levità di Gadda –
che non è greve come si fa pensare (seicentesco, barocco, nevrotico), ma lepido
(faceto, ironico, anche sarcastico, è vero). La stessa naturale (spontanea)
inventiva verbale e sintattica. Giocosa, maccheronica – il Folengo al campeggio
estivo, perché no.
Lo stupore
si spiega: questo è un caso unico, la sorpresa è totale. Chi si ricorda più
dell’Ingegnere? Sì, lo raccomandano a scuola, ma niente di più, a parte gli
amici sopravviventi. Gadda è rimasto solo, in questi cinquant’anni dopo il
“Pasticciaccio”, mentre i Pasolini, i Calvino, gli Sciascia, perfino i Parise,
affollano il Millennio, riscritti più o meno “bene”, accanto ai canonici americani delle scuole di scrittura. E se invece facesse scuola, privata?
Emanuele De
Luca, Caro Dio, quattropassi libri,
pp. 137 s.i.p.
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