domenica 15 giugno 2014

Gadda a Temù

Un libro per gli amici, nel ricordo dei vent’anni estivi in Valcamonica di un gruppo di romani del quartiere e la parrocchia di Monteverdevecchio, anno 1987 circa. Un non evento. E tuttavia: De Luca apre con D’Arrigo, “Horcynus Orca”, sul fascino della parola, e dà di fondo con Gadda. Non alla maniera di, ma con la stessa libertà (padronanza) dei linguaggi, di repertorio e inventati, di toni, alti e bassi, di volute e velature, di sorrisi e nefandezze. Benché sul niente: spintoni, gavettoni, ascese, all’Avio, discese, docce rubate, cibi sottratti, battutacce tra ragazzi, e l’occhio di riguardo alle ragazze, che ne sono comunque fuori – le “tempeste ormonali” si riducono alla lettura delle poesie di Neruda, “nell’edizione sgargiante arancione rosso tendente dei Grandi Economici della Newton”.
Non un’esperienza eccezionale, prima di Bossi, a Ponte di Legno. Anzi, quanto di più disappetente. Con un distinto profumo di oratorio: nel sottotitolo, “L’estate andavamo a Temù”, e nella prefazione del Superiore dei Concezionisti, allora giovane prete esiliato a Roma, che quel campo annualmente organizzava nella sua terra. E tuttavia, anche la storia regge: c’è commistione di corpi e anime, gli ormoni ci sono, sia pure in licenza alla “konditoreia” di paese, con molta musica, in tutte le declinazioni, De André meglio di mons. Frisina, in una rappresentazione gaddianamente fisica, con meno sgorbi forse, ma con in più i prati, i picchi (un pezzo di bravura: in cima, in premio, c’è… un cannone, un – piccolo – buco nero), i sudori, le chitarre scordate, il dialetto camuno remoto.
Una sorpresa e un godimento. Soprattutto per l’equilibrio espressivo, che Gadda avrebbe apprezzato. Dell’invenzione linguistica e variabilità sintattica sempre controllate, con lo stessa oculata misura se non abilità dell’Ingegnere. Un esperimento. De Luca non è al debutto, ha all’attivo altre prose. Ma una ripartenza, felice, liberata. E già un risultato – un esercizio stupefacente anzi, tanto più per la tenuità dell’aneddoto. Che anzi si potrebbe mettere anchessa nel conto di Gadda. Che impiantava riboboli e sfarfallii di preferenza sulla domesticità, e di questo esercizio De Luca è stupefacente padrone. Al punto da farsene anche un selfie, non volendo, a p.42, a proposito della “preghierina” serale: “E invece no, noi cercavamo sempre di metterla in modo di stupire l’auditorio riunito lì nella sala del bosco a cerchio definita a declamare gli elaborati mistici…”. Senza condiscendenze: “La solitudine ci separava l’uno accanto all’altro”. Al sapore di goliardia a volte – che pure c’è nell’Originale. Senza le paturnie – ma ci vogliono le paturnie per fare Gadda? per la memorialistica forse, di epigoni psicotici, in proprio o a contagio volontario, Gadda è a prescindere. Un  atto di coraggio, quasi una sfida. Ma con la stessa levità di Gadda – che non è greve come si fa pensare (seicentesco, barocco, nevrotico), ma lepido (faceto, ironico, anche sarcastico, è vero). La stessa naturale (spontanea) inventiva verbale e sintattica. Giocosa, maccheronica – il Folengo al campeggio estivo, perché no.
Lo stupore si spiega: questo è un caso unico, la sorpresa è totale. Chi si ricorda più dell’Ingegnere? Sì, lo raccomandano a scuola, ma niente di più, a parte gli amici sopravviventi. Gadda è rimasto solo, in questi cinquant’anni dopo il “Pasticciaccio”, mentre i Pasolini, i Calvino, gli Sciascia, perfino i Parise, affollano il Millennio, riscritti più o meno “bene”, accanto ai canonici americani delle scuole di scrittura. E se invece facesse scuola, privata?
Emanuele De Luca, Caro Dio, quattropassi libri, pp. 137 s.i.p.

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