Non ne sappiamo molto,
giusto quello che Milutinovic, il trainer zingaro, ha detto a Emanuela Audisio
giovedì su “Repubblica”: “Dovevamo pregare a tavola, ma soprattutto
portarci dietro anche nello spogliatoio una statua della Vergine e toccarla
prima di entrare in campo. Una locura.
Una paese piccolo”, è del Costarica che si parla: “ha orchidee, coccodrilli, la
mattina si mangia il gallo pinto, non
hanno esercito, che se ne fanno?” Contro tutti i pronostici, Milutinovic riuscì
nel 1990 a portare il Costarica al Mondiale: “Nessuno aveva l’auto, tanto che
la richiesero come premio. Si muovevano in corriera o si facevano accompagnare…
Io avevo comprato le scarpe da calcio per tutti, mia moglie Maria al ristorante
pagava i conti”.
Sì, si
sa anche che il Costarica è detto la Svizzera d’America. Ma senza
confronto – giusto per la storia dell’esercito. E si sa che è mezzo feudo della
signora Zingone, la moglie di Dini. Ma il mondo evolve in fretta, evidentemente:
sbandati erano a Recife gli italiani, mentre i pellegrini di Milutinovic erano
scattanti e ordinati, una vera squadra, e il calcio è sport di squadra.
Attrezzati sulle tattiche ultime di questo sport, una linea di difesa sempre
tirata col regolo, il pressing alto, le ripartenze veloci. Forti contro i torti
dell’arbitro.
Ci sono errori incredibili nella
gestione della squadra italiana: nella selezione, l’uso della rosa, gli
schieramenti, gli schemi di gioco. Ma ciò che ha più colpito è la diversa umanità
delle due squadre. Vedere quella italiana puntare sulle individualità che non
ha, specie dei tre nanetti dribblatori dell’ultima mezzora incaponiti in
solitario, subito contrati ordinatamente da tre avversari, è più che una
sconfitta calcistica, è un confronto di mentalità, deprimente. Un goal, una dozzina
di corner e una dozzina di fuori gioco, contro nemmeno un tiro in porta,
definiscono una sconfitta che, prima che calcistica, è umana.
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