sabato 21 giugno 2014

Italia-Costarica, due geografie morali

Non ne sappiamo molto, giusto quello che Milutinovic, il trainer zingaro, ha detto a Emanuela Audisio giovedì su “Repubblica”: “Dovevamo pregare a tavola, ma soprattutto portarci dietro anche nello spogliatoio una statua della Vergine e toccarla prima di entrare in campo. Una locura. Una paese piccolo”, è del Costarica che si parla: “ha orchidee, coccodrilli, la mattina si mangia il gallo pinto, non hanno esercito, che se ne fanno?” Contro tutti i pronostici, Milutinovic riuscì nel 1990 a portare il Costarica al Mondiale: “Nessuno aveva l’auto, tanto che la richiesero come premio. Si muovevano in corriera o si facevano accompagnare… Io avevo comprato le scarpe da calcio per tutti, mia moglie Maria al ristorante pagava i conti”.
Sì, si sa anche che il Costarica è detto la Svizzera d’America. Ma senza confronto – giusto per la storia dell’esercito. E si sa che è mezzo feudo della signora Zingone, la moglie di Dini. Ma il mondo evolve in fretta, evidentemente: sbandati erano a Recife gli italiani, mentre i pellegrini di Milutinovic erano scattanti e ordinati, una vera squadra, e il calcio è sport di squadra. Attrezzati sulle tattiche ultime di questo sport, una linea di difesa sempre tirata col regolo, il pressing alto, le ripartenze veloci. Forti contro i torti dell’arbitro.
Ci sono errori incredibili nella gestione della squadra italiana: nella selezione, l’uso della rosa, gli schieramenti, gli schemi di gioco. Ma ciò che ha più colpito è la diversa umanità delle due squadre. Vedere quella italiana puntare sulle individualità che non ha, specie dei tre nanetti dribblatori dell’ultima mezzora incaponiti in solitario, subito contrati ordinatamente da tre avversari, è più che una sconfitta calcistica, è un confronto di mentalità, deprimente. Un goal, una dozzina di corner e una dozzina di fuori gioco, contro nemmeno un tiro in porta, definiscono una sconfitta che, prima che calcistica, è umana.

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