Occhio
fotografico stroboscopico, introspettivo, esorcistico – di cui molte immagini
di ideale bellezza ornano l’aureo libriccino. Camminatore compulsivo, flâneur d’altura. Conoscitore
di ogni piega dei terreni, di ogni rivolo d’acqua, di ogni volo piumato, stagionale
e estemporaneo. Insomma naturalista, benché avvocato come dicono le note
biografiche, Bevilacqua s’interroga: non sarà lo stupore, la capacità di stupirsi
di fronte al creato, uno stato di follia, nel senso di Erasmo?
Si deve pur
fare una ragione di se stesso, evidentemente. E con una prosa arguta, nonché
informata dei fatti, si interroga interrogandoci. Come a dire: siete, siamo, o no
capaci di stare bene nello “spettacolo” della natura? Il sottotitolo è
“Estetica, sacralità, etica della natura”, corrispondenti ai tre capitoletti
che compongono la raccolta, più uno “Stupore e coscienza”. In compagnia di Pound
tra i tanti, il poeta folle de “L’albero”, della raccolta definitiva “Personae”,
1929: “Sono stato un albero nel bosco\ Ed ho compreso molte cose nuove\ Che
prima erano follia per la mia mente”. La religione della natura è così: è
semplice, e non lo è – le religioni si vogliono paludate e rituali.
Fulco
Pratesi scrive alla fine a Bevilacqua per contestargli l’innocenza dello
stupore: se stupore è amore e rispetto della natura, beh, ci vogliono alcuni
anni e molti strati di cultura per arrivarci. La cosa infatti, oltre che non semplice,
non è nemmeno naturale come vuole l’illuminismo di scuola. Lo stesso Bevilacqua
aveva convenuto che “non è affatto facile portare con sé la bellezza e
percepirla in un fiore o in un paesaggio”. E si era interrogato: “È saggio o
folle dilapidare le risorse naturali della Terra”? Certamente non è saggio, ma
ci vuole una buona dose di stupore.
Francesco
Bevilacqua, Elogio dello stupore,
Rubbettino, pp. 93 € 5
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