sabato 7 giugno 2014

La natura muore allo stato di natura

Occhio fotografico stroboscopico, introspettivo, esorcistico – di cui molte immagini di ideale bellezza ornano l’aureo libriccino. Camminatore compulsivo, flâneur d’altura. Conoscitore di ogni piega dei terreni, di ogni rivolo d’acqua, di ogni volo piumato, stagionale e estemporaneo. Insomma naturalista, benché avvocato come dicono le note biografiche, Bevilacqua s’interroga: non sarà lo stupore, la capacità di stupirsi di fronte al creato, uno stato di follia, nel senso di Erasmo?
Si deve pur fare una ragione di se stesso, evidentemente. E con una prosa arguta, nonché informata dei fatti, si interroga interrogandoci. Come a dire: siete, siamo, o no capaci di stare bene nello “spettacolo” della natura? Il sottotitolo è “Estetica, sacralità, etica della natura”, corrispondenti ai tre capitoletti che compongono la raccolta, più uno “Stupore e coscienza”. In compagnia di Pound tra i tanti, il poeta folle de “L’albero”, della raccolta definitiva “Personae”, 1929: “Sono stato un albero nel bosco\ Ed ho compreso molte cose nuove\ Che prima erano follia per la mia mente”. La religione della natura è così: è semplice, e non lo è – le religioni si vogliono paludate e rituali.
Fulco Pratesi scrive alla fine a Bevilacqua per contestargli l’innocenza dello stupore: se stupore è amore e rispetto della natura, beh, ci vogliono alcuni anni e molti strati di cultura per arrivarci. La cosa infatti, oltre che non semplice, non è nemmeno naturale come vuole l’illuminismo di scuola. Lo stesso Bevilacqua aveva convenuto che “non è affatto facile portare con sé la bellezza e percepirla in un fiore o in un paesaggio”. E si era interrogato: “È saggio o folle dilapidare le risorse naturali della Terra”? Certamente non è saggio, ma ci vuole una buona dose di stupore.
Francesco Bevilacqua, Elogio dello stupore, Rubbettino, pp. 93 € 5

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