I dieci anni di Marchionne
alla Fiat riscrivono, con la storia del gruppo automobilistico, quella dell’Avvocato
Agnelli. Soprattutto di quest’ultimo, anche se la sua immagine di Miglior Italiano
sembra inscalfibile.
L’Avvocato era spiritoso,
intelligente, ben introdotto all’estero, e simpatico. Ma ha rovinato la Fiat:
nei suoi quarant’anni, senza modelli, senza investimento, il quarto gruppo automobilistico
mondiale, dietro i tre americani, si era ridotto al fallimento.
L’Avvocato impersonava
anche un capitalismo che, sotto le apparenze della onorabilità, viveva di
espedienti e contributi. Scelse come suo alter ego Romiti, a preferenza di ogni
altro, magari esperto di automobili, proprio per questo. Ogni anno l’Avvocato e
Romiti “facevano” il bilancio: compravano, vendevano questo o quel pezzo del
gruppo, e in qualche modo pagavano il dividendo alla grande famiglia. Questa
era la loro “impresa”. Col plauso e con la regia di Cuccia, l’altro padre nobile
del capitale italiano del secondo Novecento, che aveva voluto Romiti e Torino e
a cui Romiti faceva capo.
Non solo la Fiat, tutta
l’industria dell’auto italiana Agnelli, Romiti e Cuccia ridussero a niente o
poco più. Vollero il monopolio dell’industria dell’auto, e di quella che era
nel 1964 la prima industria metalmeccanica europea ne fecero una residuale. Chi
frequenta la Formula 1 ne ha la misura a ogni gara: si parla italiano ai box un
tempo, e inglese, ma meno, ora solo alla Ferrari, e non sempre.
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