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Autobio – L’imperversare
del genere oggi, sotto forma di autofiction, selfie e ricordi, non sembra scardinare le obiezioni che madame de
Genlis le opponeva nel racconto “La femme auteur”, 1800 circa: “Quando si
scrive con verità, e non si cerca che nel proprio cuore i sentimenti toccati
che si vogliono esprimere, c’è in questa occupazione una tale attrattiva che essa può facilmente tenere il posto della
felicità. È molto più dolce, per il cuore e per lo spirito, fare un romanzo,
che scrivere la propria storia. Nell’ultimo caso, la dissimulazione è insieme
un torto reale e un limite che raffredda l’immaginazione, e la sincerità
perfetta è sempre un’imprudenza, e di solito una ridicolaggine. Infine, è molto
difficile parlare di sé con grazia, interesse e dignità: è terribile pensare
che le cose più degne di elogio saranno sempre un po’ sospette; perché la
parzialità naturale dello storico
getta grandi dubbi sulla storia. Ma
componendo un romanzo si può, senza avere la vana pretesa di fare il proprio
ritratto, dipingersi vagamente in mille modi, e imbellirsi senza ingannare il
lettore, al quale non si è promesso che una favola”.
Madame de Genlis inaugura tuttavia il filone ormai copiosissimo delle
memorie pubblicate in vita – in dieci tomi. Casanova e Rousseau (e Goldoni, Da
Ponte, etc.) scrivevano per i posteri, direttamente per l’immortalità – se l’autore
continua a esistere dopo morto, allora se ne pubblicano le memorie.
Invidia – Il letterato è spesso
invidioso, anche se si penserebbe di natura contraria – il creativo non lo è.
Ancora Madame de Genlis, sempre in “La femme auteur”, fa dell’invidia
letteraria una serie di sketches che
sembrano viventi, ognuno può dirsi di essercisi imbattuto. Alla prima
pubblicazione, l’autore è incoraggiato. Alla seconda non più, se alla prima ha
avuto successo. Madame de Genlis ci arriva con “un mezzo sicuro per smascherare
gli invidiosi”, e cioè “parlarne con ammirazione”. Queste le reazioni - gli
interlocutori, spiazzati, “non avendo ancora trovato l’arte di dissimulare il
disagio e la stizza che provano”:
“Se si tratta di un’opera che ha fatto rumore, gli uni dicono che non
l’hanno ancora letta, o che non l’hanno finita, e allora si sospende il giudizio. Altri fanno lo
sforzo penoso di lodarne alcuni passaggi, ma laconicamente e con le espressioni
più compassate e più fredde. Spesso, per diminuirla, la comparano a un’altra
opera che le preferiscono, e i solito il parallelo è ridicolo. Qualche volta si
estasiano sul merito di un autore che non esiste più, nell’intento di svalutare
l’autore di cui si occupano. Altri infine, meno misurati, prendono il tono
dello scherzo e di un’ironia amara per dirne male, oppure la criticano e la sbranano
apertamente . Tutti evitano anzitutto di parlarne, o provano a cambiare
conversazione quando se ne fa l’elogio”.
Lettura - Succede di
rileggere un romanzo, già letto non molti anni fa, come se fosse una prima
lettura, all’ingrosso e al minuto. Una storia di Margaret Milar, per esempio,
scrittrice pure per molti aspetti amata. O una di Scerbanenco, soprattutto
quelle milanesi, tanto più soldie. Anche quelle che contengono molti punti di
riferimento attualizzabili: luoghi e ambienti conosciuti e praticati, personaggi
riconoscibili, psicologie familiari: si dimentica tutto.
Tanto più la lettura è rapida tanto meno si assimila? Si dice che la scrittura
di successo è condannata a essere presto dimenticata. Ma è un caso di lentezza
contro rapidità? Le mille pagine della gelosia di Proust non attirano, per
nessun motivo. Mentre di Pirandello storie tanto più brevi sono più appetibili,
malgrado il tema indigesto. Però le mille pagine di Proust non si cancellano, e
anzi sii ricordano, per questo o quel motivo o impianto tematico o giro di
frase - anche alla sortes vergilianae, aprendo a caso l’ossessione
è riconoscibile.
È la cifra stilistica? Una scrittura elaborata, molata, incide meglio
di una rapida? Hammett non si può dire tirato via, e ha molto lavoro editoriale
dietro, però non ha un personaggio o un evento memorabile. Chandler invece sì,
per restare allo stesso genere e nella stessa ambientazione. Percfhé ha più
ambientazione. Più memorabile. E anche personaggi in vario modo memorabili.
Libro – Tra gli oggetti della
corruzione multimilionaria al Mose di Venezia, secondo Pierluigi Baita,
l’ufficiale pagatore del consorzio Mantovani, ci sono “consulenze, incarichi, libri,
mostre”. Non il libro prezioso o il
quadro d’autore. Non il libro da leggere, naturalmente. Nemmeno l’acquisto di
un certo numero di copie – sostenitore, la vecchia sottoscrizione dell’autore
tra conoscenti, amici, parenti e estimatori. Non, l’edizione. La vanità si paga,
nella corruzione.
Poesia – “La lettura” domenica 15 ha
una pagina sulla poetessa americana tweet-cum-sesso Patricia Lockwood.
Attraente, almeno di tre quarti, e giovane, cattolica, senza più fede,
immoralata dal tweet “Rape joke”, la sapete quella dello stupro. Dice le cose
che deve in un’intervista: “I poeti lavorano meglio in solitudine”, “L’arte è
come l’erba che cresce nelle più piccole crepe”, “Il panico mediatico quando si
parla di sesso è molto divertente” – molto? etc. Nn fosse per un inciso. Che
Serena Danna, l’intervistatrice, si lascia sfuggire come dicesse “ha preso un’aspirina”:
la poetessa ha raccolto dieci milioni di dollari in due giorni per
un’operazione agli occhi del marito. Un’operazione da dieci milioni? Sottoscritta
su tweet in due giorni? Potenza della poesia.
“La lettura” dovrebbe farci un numero speciale.
Proust – Il suo tema più elaborato è
la gelosia? Purtroppo sì.
Talk show – Sa più del
comizio che dell’informazione-formazione cui si ispira – dovrebbe, promette. È sempre
politicamente schierato. La cosa è forse inevitabile. Ma la scelta del
pubblico, e le gestione dell’applauso in studio fa sorgere un dubbio: è l’opinione
(l’opinione degli appassionati delle trasmissioni politiche) che richiede un’informazione
schierata, o non lo spettacolo si monta come un comizio, adeguandone naturalmente
le modalità?
È ora di sinistra, dev’essere schierato, a pena
di audience, ma era nato “anarchico”.
Con Gianfranco Funari, “Aboccaperta”. Su Telemontecarlo dal 1981, e poi, dal 1984
al 1987, sulla Rai 2 di Giovanni Minoli. Consolidato dallo stesso Funari con “Mezzogiorno
è”, sempre su Rai 2 fino al 1990, quando fu licenziato per aver invitato Ugo La
Malfa… troppo scandalo. Riprese i suoi format sulle tv di Berlusconi, dapprima
su Italia 1. Poi, licenziato da Berlusconi su pressione di Craxi, e reintegrato
giudiziariamente con un miliardo e mezzo di penale, fu spostato su Retequattro
per un paio d’anni. Dopodiché fu “segato” definitivamente, per difetto di audience.
Funari non contestò il difetto di audience: aveva un senso intuitivo della
tecnica e l’economia del mezzo televisivo. Fu anche un innovatore della
pubblicità, introducendo il testimonial (lui stesso come imbonitore) e il
minuto di messaggio promozionale che non incide sui tempi regolamentati dell’interruzione
pubblicitaria. L’insuccesso di audience
del suo talk show spiegò insistentemente con la collocazione preserale, e col
traino debole, il Tg 4 di Fede, che non faceva più del 4 per cento di audience –
ma fu segato lui e non Fede.
Avendo partecipato in qualità di ospite ai suoi
talk-show su Retequattro, “Funari news” e “Punto di svolta”, una sorta di “Ballarò” per pensionati (è
da presumere, a quell’ora), si può testimoniare la sua
totale autonomia politica e di giudizio. Senza mai un partito preso, o il
taglio di un’opinione. Suffragato dall’applauso, che non c’era e comunque
Funari non gestiva. Un altro tipo d’informazione-formazione, non propagandistico.
A contrario cioè di quello ora in voga, che tanto più si assicura una audience
quanto più è settario.
letterautore@antiit.eu
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