mercoledì 18 giugno 2014

Letture - 175

letterautore

Autobio – L’imperversare del genere oggi, sotto forma di autofiction, selfie e ricordi, non sembra scardinare le obiezioni che madame de Genlis le opponeva nel racconto “La femme auteur”, 1800 circa: “Quando si scrive con verità, e non si cerca che nel proprio cuore i sentimenti toccati che si vogliono esprimere, c’è in questa occupazione una tale attrattiva  che essa può facilmente tenere il posto della felicità. È molto più dolce, per il cuore e per lo spirito, fare un romanzo, che scrivere la propria storia. Nell’ultimo caso, la dissimulazione è insieme un torto reale e un limite che raffredda l’immaginazione, e la sincerità perfetta è sempre un’imprudenza, e di solito una ridicolaggine. Infine, è molto difficile parlare di sé con grazia, interesse e dignità: è terribile pensare che le cose più degne di elogio saranno sempre un po’ sospette; perché la parzialità naturale dello storico getta grandi dubbi sulla storia. Ma componendo un romanzo si può, senza avere la vana pretesa di fare il proprio ritratto, dipingersi vagamente in mille modi, e imbellirsi senza ingannare il lettore, al quale non si è promesso che una favola”.

Madame de Genlis inaugura tuttavia il filone ormai copiosissimo delle memorie pubblicate in vita – in dieci tomi. Casanova e Rousseau (e Goldoni, Da Ponte, etc.) scrivevano per i posteri, direttamente per l’immortalità – se l’autore continua a esistere dopo morto, allora se ne pubblicano le memorie.   

Invidia – Il letterato è spesso invidioso, anche se si penserebbe di natura contraria – il creativo non lo è. Ancora Madame de Genlis, sempre in “La femme auteur”, fa dell’invidia letteraria una serie di sketches che sembrano viventi, ognuno può dirsi di essercisi imbattuto. Alla prima pubblicazione, l’autore è incoraggiato. Alla seconda non più, se alla prima ha avuto successo. Madame de Genlis ci arriva con “un mezzo sicuro per smascherare gli invidiosi”, e cioè “parlarne con ammirazione”. Queste le reazioni - gli interlocutori, spiazzati, “non avendo ancora trovato l’arte di dissimulare il disagio e la stizza che provano”:
“Se si tratta di un’opera che ha fatto rumore, gli uni dicono che non l’hanno ancora letta, o che non l’hanno finita, e allora si sospende il giudizio. Altri fanno lo sforzo penoso di lodarne alcuni passaggi, ma laconicamente e con le espressioni più compassate e più fredde. Spesso, per diminuirla, la comparano a un’altra opera che le preferiscono, e i solito il parallelo è ridicolo. Qualche volta si estasiano sul merito di un autore che non esiste più, nell’intento di svalutare l’autore di cui si occupano. Altri infine, meno misurati, prendono il tono dello scherzo e di un’ironia amara per dirne male, oppure la criticano e la sbranano apertamente . Tutti evitano anzitutto di parlarne, o provano a cambiare conversazione quando se ne fa l’elogio”.

Lettura - Succede di rileggere un romanzo, già letto non molti anni fa, come se fosse una prima lettura, all’ingrosso e al minuto. Una storia di Margaret Milar, per esempio, scrittrice pure per molti aspetti amata. O una di Scerbanenco, soprattutto quelle milanesi, tanto più soldie. Anche quelle che contengono molti punti di riferimento attualizzabili: luoghi e ambienti conosciuti e praticati, personaggi riconoscibili, psicologie familiari: si dimentica tutto.
Tanto più la lettura è rapida tanto meno si assimila? Si dice che la scrittura di successo è condannata a essere presto dimenticata. Ma è un caso di lentezza contro rapidità? Le mille pagine della gelosia di Proust non attirano, per nessun motivo. Mentre di Pirandello storie tanto più brevi sono più appetibili, malgrado il tema indigesto. Però le mille pagine di Proust non si cancellano, e anzi sii ricordano, per questo o quel motivo o impianto tematico o giro di frase - anche alla sortes vergilianae, aprendo a caso l’ossessione è riconoscibile.
È la cifra stilistica? Una scrittura elaborata, molata, incide meglio di una rapida? Hammett non si può dire tirato via, e ha molto lavoro editoriale dietro, però non ha un personaggio o un evento memorabile. Chandler invece sì, per restare allo stesso genere e nella stessa ambientazione. Percfhé ha più ambientazione. Più memorabile. E anche personaggi in vario modo memorabili.

Libro – Tra gli oggetti della corruzione multimilionaria al Mose di Venezia, secondo Pierluigi Baita, l’ufficiale pagatore del consorzio Mantovani, ci sono “consulenze, incarichi, libri, mostre”.  Non il libro prezioso o il quadro d’autore. Non il libro da leggere, naturalmente. Nemmeno l’acquisto di un certo numero di copie – sostenitore, la vecchia sottoscrizione dell’autore tra conoscenti, amici, parenti e estimatori. Non, l’edizione. La vanità si paga, nella corruzione.
Poesia – “La lettura” domenica 15 ha una pagina sulla poetessa americana tweet-cum-sesso Patricia Lockwood. Attraente, almeno di tre quarti, e giovane, cattolica, senza più fede, immoralata dal tweet “Rape joke”, la sapete quella dello stupro. Dice le cose che deve in un’intervista: “I poeti lavorano meglio in solitudine”, “L’arte è come l’erba che cresce nelle più piccole crepe”, “Il panico mediatico quando si parla di sesso è molto divertente” – molto? etc. Nn fosse per un inciso. Che Serena Danna, l’intervistatrice, si lascia sfuggire come dicesse “ha preso un’aspirina”: la poetessa ha raccolto dieci milioni di dollari in due giorni per un’operazione agli occhi del marito. Un’operazione da dieci milioni? Sottoscritta su tweet in due giorni? Potenza della poesia.
“La lettura” dovrebbe farci un numero speciale.

Proust – Il suo tema più elaborato è la gelosia? Purtroppo sì.

Talk show – Sa più del comizio che dell’informazione-formazione cui si ispira – dovrebbe, promette. È sempre politicamente schierato. La cosa è forse inevitabile. Ma la scelta del pubblico, e le gestione dell’applauso in studio fa sorgere un dubbio: è l’opinione (l’opinione degli appassionati delle trasmissioni politiche) che richiede un’informazione schierata, o non lo spettacolo si monta come un comizio, adeguandone naturalmente le modalità?

È ora di sinistra, dev’essere schierato, a pena di audience, ma era nato “anarchico”. Con Gianfranco Funari, “Aboccaperta”. Su Telemontecarlo dal 1981, e poi, dal 1984 al 1987, sulla Rai 2 di Giovanni Minoli. Consolidato dallo stesso Funari con “Mezzogiorno è”, sempre su Rai 2 fino al 1990, quando fu licenziato per aver invitato Ugo La Malfa… troppo scandalo. Riprese i suoi format sulle tv di Berlusconi, dapprima su Italia 1. Poi, licenziato da Berlusconi su pressione di Craxi, e reintegrato giudiziariamente con un miliardo e mezzo di penale, fu spostato su Retequattro per un paio d’anni. Dopodiché fu “segato” definitivamente, per difetto di audience.
Funari non contestò il difetto di audience: aveva un senso intuitivo della tecnica e l’economia del mezzo televisivo. Fu anche un innovatore della pubblicità, introducendo il testimonial (lui stesso come imbonitore) e il minuto di messaggio promozionale che non incide sui tempi regolamentati dell’interruzione pubblicitaria. L’insuccesso di audience del suo talk show spiegò insistentemente con la collocazione preserale, e col traino debole, il Tg 4 di Fede, che non faceva più del 4 per cento di audience – ma fu segato lui e non Fede.

Avendo partecipato in qualità di ospite ai suoi talk-show su Retequattro, “Funari news e Punto di svolta, una sorta di “Ballarò” per pensionati (è da presumere, a quell’ora), si può testimoniare la sua totale autonomia politica e di giudizio. Senza mai un partito preso, o il taglio di un’opinione. Suffragato dall’applauso, che non c’era e comunque Funari non gestiva. Un altro tipo d’informazione-formazione, non propagandistico. A contrario cioè di quello ora in voga, che tanto più si assicura una audience quanto più è settario.

letterautore@antiit.eu

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