Si fanno
oggi riforme su riforme, si annunciano perlomeno anche se poi non si fanno, mentre
lo spazio delle riforme è esaurito, o così sembra. La riforma è un progetto
politico, e non si può escludere un politico di genio che abbia
un’illuminazione imprevista. Ma sociologicamente si individua e si prepara
analizzando criticamente la realtà, quando essa mostra crepe e insufficienze.
Oggi è come se la globalizzazione avesse chiuso o esaurito ogni spazio di
riforma. In Italia come in Cina.
Si
prenda il mercato del lavoro. Ovunque in Europa (di più nell’Europa più ricca,
occidentale) va nella duplice direzione di una domanda iperqualificata che non
trova offerta, e di un’offerta non qualificata che non trova domanda. Da cui il
doppio sovraccarico di disoccupazione e di immigrazione in eccesso e
clandestina – una doppia negatività, che si somma invece di elidersi, che
curiosamente colpisce da qualche tempo anche la Cina, regina della
globalizzazione. O si prenda la produttività. Che necessita investimenti.
Mentre i capitali sono dirottati, per la rendita materie prime o la rendita
lavoro (sottopagato, ipersfruttato) all’esterno dei sistemi produttivi
nazionali e dell’Europa.
È questo
il nodo dell’Europa e dell’Italia: conquistarsi spazi di riforma. È anche la
via per sfuggire alla jugulazione germanica attraverso il compact fiscale: trovarsi uno spazio di riforma nel più ampio
mercato globale – ogni ipotesi è possibile: una burocrazia che facilita gli
investimenti invece di scoraggiarli, la defiscalizzazione degli investimenti,
la riqualificazione professionale dei tanti laureati in scienza delle
comunicazioni o discipline umanistiche. La Germania, come si sa, si è liberata
della jugulazione globale attraverso la “riforma” radicale del lavoro – che può
essere anche superpagato in alcune aziende, in proporzione ai benefici, ma non
ha più nessuna garanzia contrattuale.
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