Dunque, per Bruxelles
le riforme sono una: le privatizzazioni. Il famoso scrutinio europeo che l’Italia
attendeva è arrivato con una chiara indicazione: vendere. Finora chiamate
liberalizzazioni, per un’infarinatura di bon ton, ora che siamo liberalizzati,
soggetti cioè della petulanza quotidiana di ogni operatore del telefono, della
luce, del gas, con offerte bugiarde, la cosa si chiama col suo nome: vendere le
aziende pubbliche. Anzi ogni patrimonio pubblico, boschi, spiagge, le acque
dolci, coi monumenti e l’aria, perché no. Venderli subito, senza stare a fare
il prezzo, l’Europa è ultimativa.
La vendita non risolve
il debito, questo è risaputo. Le vendite di Ciampi e Draghi vent’anni fa non
hanno risolto niente. E hanno anzi provocato grossi danni, alle banche ex Iri e
a Telecom Italia soprattutto – mentre le aziende rimaste sotto il controllo
pubblico sono floridissime, Eni, Enel, Finmeccanica, Terna, Saipem, perfino
Fincantieri. Anche alla Grecia ultimamente Bruxelles ha imposto di vendere,
promettendo entrate per 60 miliardi in tre anni: sono assommate a 2,6 miliardi.
Un gioco dei furbi, peraltro scoperto.
Una Europa che si
raccomanda in questi termini si penserebbe abbia raggiunto il fondo. Ma
Bruxelles non si vergogna: ha finalmente una constituency chiara, e non se ne vergogna. Certa dell’impunità. Ci
chiedevamo a chi rispondessero Barroso, Van Rompuy, Olli Rehn e i loro compari.
Ma alle banche d’affari e ai fondi d’investimento. Ecco perché tanta impunità,
questa Europa naviga sull’oro.
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