mercoledì 18 giugno 2014

Quando l’America pensava a sinistra

Il padre, reazionario, gli amici, poeti, gli scrittori del momento per lettori di “New Masses” e “The Daily Worker”, i giornali dei comunisti americani, Saroyan e Halper, senza essere comunisti, ma rivoluzionari sì, il jazz, contro la segregazione razziale, qualche ragazza, d’obbligo, la partita alla radio, le birrette, e l’ambizione di restare in piedi la notte fino al mattino a mezzogiorno”: è la tarda adolescenza, nel paese sonnolento, i giorni passano uguali, fantasticando. Alla vigilia dell’entrata in guerra degli Stati Uniti, nel 1942, che calerà una saracinesca. Kerouac ha vent’anni, e questo è il dato più interesante della narrazione, ripescata dopo essere andata smarrita nel 1945, al primo abbozzo. 
Uno dei tantissimi ur-testi di “Sulla strada”. Cui Kerouac giunse con applicazione e molte letture, se  non studi. Non il primo, aveva già scritto due anni prima “Il mare è mio fratello” sugli stessi temi e “Galloway”, pseudonimo della natia Lowell, Massachusetts. Lo spontaneismo beat è l’esito di un lungo percorso, tematico e espositivo, non di improvvisazione. Ma questo è anche la rappresentazione storica dell’America come avrebbe potuto essere e poi non è stata - vedremo come. In “Galloway” Keoruac aveva già espresso il dubbio che raccontare il paesello sarebbe stato “provinciale”, di poco interesse. Qui ne rafforza il contesto con l’ansia dell’evasione, attraverso la guerra. La guerra come avventura: il nomadismo “come forte agente di trasformazione personale” (Tietchen) è qui collegato agli spostamenti di enormi masse che la guerra comporterà.
Il romanzo del romanzo è l’interesse della pubblicazione, cucito dal curatore, Todd F. Tietchen. Una sorta di ipertesto - l’esito, anche, dell’editoria (della letteratura) come fatto industriale. Il racconto smarrito e ritrovato c’entra poco, è un pretesto. Per una serie di sketches del padre Leo - il mammone Jack aveva un padre, anche lui. E per le note e riflessioni dello stesso Kerouac. Nonché per l’introduzione di Tietchen. Un corredo che prende due terzi del libro. L’appunto dell’aprile 1944, “Per «La vita stregata»”, prospetta “tutto Kerouac”: la fuga, il vitalismo, e il conservatorismo, al bordo della follia, il buco nero, in un uomo e scrittore tanto ordinato, riflessivo, della morte precoce del fratello, dello sconquasso nella vita affettiva e familiare. La fuga in particolare, il nomadismo, vi è accentuata: “La guerra crea una situazione analoga a un’immane migrazione incrociata” (“Ho sentito narrare di episodi, nella caotica Europa occupata, in cui i bambini si riuniscono in gruppi e sciamano via... Accade un fenomeno che può essere definito una «decade nomade»”).
Kerouac è già qui apolitico, diffidente della politica come schieramento – è uno che non voterà mai, di proposito. Ma è di un’anarchia socialmente consapevole. Con gli amici di questo racconto, che poi moriranno in guerra, si popone di andare in Russia a guerra finita per “fare la rivoluzione”. Legge di preferenza scrittori impegnati, gli stessi che cita – oltre a tutti i romanzi del canone, che annota. Ascolta di preferenza musica impegnata, jazz, Shostakovic, Delius. Non era il solo.
Tietchen apre un’interessante finestra sull’opinione anni Trenta, di un’altra America, molto palingenetica, che la guerra fredda cancellerà in profondità. Ma anche, bisogna aggiungere, di un’America ancora paesana e quindi ottimista, che si cancellerà nella dimensione metropolitana poi dominante. Dopo la guerra, con la proiezione mondiale del paese. Negli appunti del 1945, dopo la prima New York e l’incontro con A. Ginsberg e Burroughs, c’è già una reazione anti-liberal, contro la “decadenza antiliberale” delle “metropoli d’America”.  
Jack Kerouac, La vita stregata. Oscar, p. 179 € 10

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