D.H.Lawrence si fa la
Sardegna in quattro notti, da Cagliari a Sorgono, Nuoro e Olbia (Terranova
Pausania). Fu più lungo il viaggio di avvicinamento, da Taormina, il giorno
dopo Capodanno, a Messina, Palermo e Trapani in treno, e da Trapani a Cagliari
col piroscafo. È attratto, dice, dalle persone e i luoghi. Stanco di vedere e
ammirare “cose”, siano pure i Perugino e i Botticelli, vuole la natura e gli
uomini.
La Sardegna è pur sempre un altro mondo.
La Nation Island del console inglese
William Craig al tempo dell’unità. L’unica esclusa dal Grand Tour, i diari e le
lettere dei viaggiatori transalpini, che fecero conoscere l’Italia agli
italiani nel Sette e Ottocento, non avendo templi greci né arene romane da
esibire. Dunque è il posto giusto per una evasione. Ma lo scrittore non vede molto. Anche perché ha molti paraocchi - e lo sa.
Albergatori-trici inospitali, più spesso nel
sudiciume. Pane e caffè impossibili da ottenere. Il freddo, sono i quattro
giorni dopo l’Epifania. La cottura del capretto alla brace. Un ambulante biondo,
bello e fantasioso, di oggetti e “figli” per le donne, che chiama moglie il suo
servo. Gli autisti dei bus, sempre speciali - un po’ tutti gli uomini che Lawrence
nota nell’isola, per un verso o per l’altro, lo turbano. Ombre ovunque del
detestato-ammirato socialismo. L’onestà, “poiché tutti lasciano il bagaglio
incustodito”, e le porte aperte. Le strade, anche in Sardegna – “le strade in
Italia sempre mi impressionano”, arrischiate, “naturali”. La curiosità e
l’indifferenza per l’estraneo. Ma non è nemmeno molto curioso benché sappia l’italiano
fin nelle sfumature. Più disponibile la moglie tedesca che lo accompagna,
Frieda, che però il racconto tiene al margine, liquidandola come “a-r”, l’ape-regina
industriosa. Il più è lasciato ai “romanzi di Grazia Deledda”.
Le duecentocinquanta pagine riempiono
i cinque giorni di lirismo. Orosei, dove passa pochi minuti, tra gente “non
amichevole”, Lawrence vede “città morta, quasi estinta”: “Oh, meravigliosa
Orosei, coi tuoi mandorli e il fiume tra i canneti, vibrante di luce e del mare
vicino, e così perduta, in un mondo da tempo andato, sopravvivente come le
leggende sopravvivono. È arduo a credere che sia reale. Sembra così tanto che
la vita l’ha abbandonata, e la memoria l’ha trasfigurata in puro incantesimo,
sperduto come una perla abbandonata sulla costa orientale della Sardegna. E
tuttavia eccola, coi suo pochi bisbetici abitanti che non vi daranno nemmeno
una crosta di pane. E probabilmente c’è la malaria – anzi sicuro. E sarebbe un
inferno doverci vivere per un mese. E tuttavia per un momento, quella mattina
di gennaio che meraviglia, oh il fascino senza tempo di quel Medio Evo quando
gli uomini erano signori e violenti, con l’ombra della morte”.
Cosa resta? Della Sardegna -
“Mare e Sardegna” è ripubblicato in una collana Scrittori di Sardegna. Un
prontuario dei costumi femminili, dei giorni feriali e delle feste. Dettagliato,
ammirato. Specialmente vivo oggi, dopo i tanti decenni di sciatteria in bigio: i
rossi geranio, i riflessi della malachite. La Sardegna svuotata
dell’allevamento, che era la sua ricchezza, non più ricostruita, per nutrire i
soldati al fronte. La questione del carbone, uno dei filoni della “vittoria
defraudata”, in questo caso dall’Inghilterra usuraia: la Sardegna ce l’ha ma è
“dolce”, poco calorico. I bambini in costume a Cagliari – per la Befana, di cui
Lawrence si mostra ignaro. Gli adulti in maschera a Nuoro, per l’inizio del
Carnevale la domenica, coi tanti uomini che al solito lo turbano e descrive
goloso in dettaglio, qui vestiti da donne. E in genere una buona disposizione –
dello scrittore, non dei sardi.
Molto Lawrence immagina.
Specie l’indipendenza delle donne, non per civetteria ma per strafottenza,
rispetto ai mariti padroni – lo scrittore è il tipo che un tempo si diceva misogino.
L’insociabilità legata all’isolamento. La rusticità come profondità, del
tratto, dello sguardo. Spesso dal taglio degli occhi denota una ricorrente –
fino a metà libro - tipologia asiatica (giapponese, cinese) o “esquimese”, il taglio che altrove si conformerebbe con
l’età e la circolazione sanguigna. A volte invece fa l’inglesotto
(l’americanino, il tedescone), quello che viaggia per sentirsi migliore, con
ogni persona e a ogni scorcio che non siano di casa sua.
Un viaggio per caso? Deledda
avrà il Nobel cinque anni dopo, non è un viaggio sull’attualità - la prima traduzione
inglese di Deledda verrà peraltro l’anno dopo (Lawrence sarà richiesto della
prefazione per la seconda traduzione di Deledda, “La madre”, nel 1923). La Wanderlust, la voglia di vagabondaggio,
su cui Lawrence s’interroga alla prima pagina, ha questo inconveniente. Che si
ha bisogno di muoversi, tanto per cambiare: per nervosismo, stanchezza,
vacanza, per curiosità talvolta, per irrequietezza. Una voglia non irragionevole,
alla fine, né malvagia. Se non che lo scrittore poi vuole scriverne. Più che
altro è un libro sul mal di viaggiare.
La meraviglia maggiore è che
questo fitto “Mare e Sardegna” fu scritto in pochi giorni e pubblicato subito, nello
stesso 1921, a New York - e due anni dopo in Inghilterra. Di un autore che non
aveva ancora scritto “L’amante d Lady Chatterley”, giusto un buon autore. Da
questo punto di vista sicuramente un altro mondo.
David H. Lawrence, Mare e
Sardegna, Ilisso, pp. 240, € 7
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