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Diaspora – È un senso di appartenenza e di mancanza. È
un fatto storico, di persistenza di fattori religiosi, culturali, cultuali, etnici,
familiari, psicologici, anche linguistici, più che idi una condizione sociale o
materiale. Ma è sempre una scelta.
Non è
l’emigrazione in sé, ma un modo di affrontarla, e il confronto con
l’emigrazione pura e semplice aiuta a definirla. L’emigrato, pur non rifiutando
le origini, mira a integrarsi nel paese di elezione, più o meno volontaria, di
destinazione. Se ne fa anche un motivo di orgoglio. Questo procedimento, che è
stato chiamato dell’assimilazione, è prevalente – è all’origine dell’incontro
delle culture, il meticciato di Senghor, il meccanismo attraverso cui
cristallizza e “avanza” la civiltà. Ed è anche ragionevole e giusto, posto che
l’emigrazione, sia pure pacifica, riconoscente,
servile, è comunque un’invasione
di campo. La prevalenza accordata alle radici, fino al rifiuto della residenza,
variamente espresso oppure riservato, è anch’essa ragionevole, e giusta. Ma non
nel senso di un pacifico sviluppo quanto di una rivalsa.
Ironia – È critica e scettica. Contrasta con la
certezza, della prima età, la prima scoperta del mondo, che è densa e si
vorrebbe di verità (unica) e autenticità. I cui approfondimenti successivi porteranno
a un distanziamento. Nella forma della critica del reale – ovvero la sua
costruzione. Dell’ermeneutica. Dell’ironia, o scetticismo.
È anche
una forma di socievolezza, per il sottinteso umorismo, di condivisione del
sottinteso codice, oltre che di conoscenza. Come una serie di cerchi
concentrici sull’acqua attorno a un punto, che vanno via e si dissolvono per
l’impeto impreso dal corpo centrale, ma senza dissolversi. Con increspature più
o meno lievi – sempre lievi.
Memoria – Si ricorda
a lungo, anche in dettaglio, una lettura noiosa, per esempio il Proust della
“Ricerca”. Mentre si dimentica tutto di una lettura che pur si ricorda saporita,
e avida. Tipo Soldati, o anche Scerbanenco. Capita di rileggere di quest’ultimo
“Dove il sole non sorge mai”, dopo non più di dieci anni, come se fosse la
prima volta, in tutto, senza memoria di nulla, nomi, personaggi, città, che
pure sono stati e sono familiari e riconoscibili, individualizzabili. Dunque,
la memoria va scolpita, e sempre rinfrescata. Ma, allora, a maggior ragione più
di tutto dovrebbe venire scolpita la memoria remota. In età non alzheimer:
quella dell’infanzia. Che è invece la più privilegiata. Per il motivo che la
psicoanalisi ne ha fatto il centro del suo business?
Morte – “Voglio che la morte mi sorprenda mentre sono
nell’orto a piantare i cavoli”. È difficile immaginare il signor de Eyquem a
piantare cavoli, però modernamente sì, il giardinaggio è un passatempo per gentlemen, Montaigne è credibile.
Modernamente, invece, Montaigne sembra cinico. In quest’epoca che pure è
salutista e pacifica, non più assediata dalle pesti e le guerre come all’epoca:
il pensiero (rifiuto) della morte incombe più che mai, deprime su vasto raggio,
si può dire a strascico. Forse perché non ci sono più gli orti? E comunque non più
cavoli? I cicli della natura.
Natura – Non è ecologica? Sembra – è – scomparsa in
questa era ecocompatibile. Non tanto nella flora e nella fauna, accudite come
non mai, ma nel rapporto umano. L’ecologia è applicazione asettica
anestetizzante.
Psicologia – Un scienza svanita, appena concepita? Quella
del profondo messa in crisi dalla psicoanalisi. Quella prenatale dalla riproduzione
in vitro. Quella dell’infanzia dal marketing, la commercializzazione.
Riproduzione – La funzione genetica si è ridotta alla
riproduzione. Da creativa a riproduttiva. Si era ritenuto che i tratti somatici
e del carattere si trasmettessero col seme, e si ritiene tuttora, per una scelta
(d’amore, ma non importa), ma ora il seme è indifferente. Anche l’utero – l’humus di coltivazione, il sistema ecologico – è indifferente. Solo il meccanismo della
riproduzione è calcolato: considerato, protetto.
Suicidio – È voglia di non
lasciarsi fare? Il suicidio è atto assertivo, che si pone a contrasto
dell’unico evento comune a tutti gli uomini, la morte, la quale si vuole
incerta. Il suicida vorrebbe schivare questa ineluttabilità, rendendola
volontaria. Ma la fa doppiamente volontaria: è la famosa servitù volontaria. Né
è detto che ci riesca. Il moralista Chamfort, il trovatello divenuto l’“Ercole
in forma di Adone” delle nobildame della Reggenza, nonché della corte di Luigi
XVI, poi giacobino, quando temette di restare vittima del Terrore si sparò in
testa ma si staccò solo il naso e mezza mascella, si tagliò il collo ma non
trovò l’aorta, si squarciò il petto ma non trovò il cuore, e quando si recise
le vene dei polsi il cameriere lo soccorse, per cui visse altri sette mesi agli
arresti domiciliari, con l’onere di pagare la diaria al gendarme. La vita si
gioca a rimpiattino con la morte, finché riesce - anche la nascita è evento
comune a tutti gli esseri, che altrimenti non sarebbero, e indipendente, così
come la morte, dalla volontà del soggetto.
È
voglia di eccezione? Comune, giusta, il proprio dell’uomo d’eccellenza,
dell’uomo. La morte ugualizzando tutti, il suicidio si prospetta quale marchio
di differenza. Ma ha l’effetto di anticipare l’immota uguaglianza: la morte può
fare di ognuno un eletto, nelle opere, nel ricordo, mentre il suicidio
cristallizza in sé, soverchiando ogni altra sfumatura. Ciò è vero anche in
senso metaforico: nessun suicida ha mai cambiato nulla, non l’equivalente del
battito di ciglia a Manhattan, del volo di farfalla a Singapore. I letterati
suoi simili, gli intellettuali dell’epoca, Chamfort diceva “simili agli asini
che scalciano o s’azzuffano davanti a una mangiatoia vuota”. Il suicida rende
ineluttabile una morte che, in teoria, potrebbe non venire, per longevità,
resurrezione, il modulo più frequente tra le forme di vita, oblio.
“Dove sono cresciuto io”, è uno dei motti
celebri di Woody Allen, “a Brooklyn, nessuno si suicidava. Erano tutti troppo
infelici”.
Umori – La
diffusione della depressione in tempi di ricchezza senza precedenti (agiatezza,
servizi, sicurezza, innovazione) riporterà la medicina alla teoria di Ippocrate
degli umori? Oggi più che mai l’assunto basico della sua teoria si conferma,
che la salute è una combinazione di elementi e fattori fisici, ma anche di
umori e carattere, la somatizzazione è un fatto.
Anche i
fattori della “teoria umorale” di Ippocrate si confermano, con qualche
sofisticheria in più. I fattori umorali correlati ai quattro elementi, aria,
acqua, fuoco e terra: rispettivamente sangue, flegma, bile gialla, bile nera. O
del temperamento flemmatico, sanguigno, collerico, malinconico. Il carattere,
la tipologia fisica e fisiologica, e conseguentemente la salute, o l’equilibrio
psico-fisico, sono diversi per ognuno e correlati, più che alle condizioni
esteriori, agli “umori”.
zeulig@antiit.eu
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