lunedì 23 giugno 2014

Secondi pensieri - 179

zeulig

Diaspora – È un senso di appartenenza e di mancanza. È un fatto storico, di persistenza di fattori religiosi, culturali, cultuali, etnici, familiari, psicologici, anche linguistici, più che idi una condizione sociale o materiale. Ma è sempre una scelta.
Non è l’emigrazione in sé, ma un modo di affrontarla, e il confronto con l’emigrazione pura e semplice aiuta a definirla. L’emigrato, pur non rifiutando le origini, mira a integrarsi nel paese di elezione, più o meno volontaria, di destinazione. Se ne fa anche un motivo di orgoglio. Questo procedimento, che è stato chiamato dell’assimilazione, è prevalente – è all’origine dell’incontro delle culture, il meticciato di Senghor, il meccanismo attraverso cui cristallizza e “avanza” la civiltà. Ed è anche ragionevole e giusto, posto che l’emigrazione, sia pure pacifica, riconoscente,  servile,  è comunque un’invasione di campo. La prevalenza accordata alle radici, fino al rifiuto della residenza, variamente espresso oppure riservato, è anch’essa ragionevole, e giusta. Ma non nel senso di un pacifico sviluppo quanto di una rivalsa.

Ironia – È critica e scettica. Contrasta con la certezza, della prima età, la prima scoperta del mondo, che è densa e si vorrebbe di verità (unica) e autenticità. I cui approfondimenti successivi porteranno a un distanziamento. Nella forma della critica del reale – ovvero la sua costruzione. Dell’ermeneutica. Dell’ironia, o scetticismo.
È anche una forma di socievolezza, per il sottinteso umorismo, di condivisione del sottinteso codice, oltre che di conoscenza. Come una serie di cerchi concentrici sull’acqua attorno a un punto, che vanno via e si dissolvono per l’impeto impreso dal corpo centrale, ma senza dissolversi. Con increspature più o meno lievi – sempre lievi.

Memoria – Si ricorda a lungo, anche in dettaglio, una lettura noiosa, per esempio il Proust della “Ricerca”. Mentre si dimentica tutto di una lettura che pur si ricorda saporita, e avida. Tipo Soldati, o anche Scerbanenco. Capita di rileggere di quest’ultimo “Dove il sole non sorge mai”, dopo non più di dieci anni, come se fosse la prima volta, in tutto, senza memoria di nulla, nomi, personaggi, città, che pure sono stati e sono familiari e riconoscibili, individualizzabili. Dunque, la memoria va scolpita, e sempre rinfrescata. Ma, allora, a maggior ragione più di tutto dovrebbe venire scolpita la memoria remota. In età non alzheimer: quella dell’infanzia. Che è invece la più privilegiata. Per il motivo che la psicoanalisi ne ha fatto il centro del suo business?

Morte – “Voglio che la morte mi sorprenda mentre sono nell’orto a piantare i cavoli”. È difficile immaginare il signor de Eyquem a piantare cavoli, però modernamente sì, il giardinaggio è un passatempo per gentlemen, Montaigne è credibile. Modernamente, invece, Montaigne sembra cinico. In quest’epoca che pure è salutista e pacifica, non più assediata dalle pesti e le guerre come all’epoca: il pensiero (rifiuto) della morte incombe più che mai, deprime su vasto raggio, si può dire a strascico. Forse perché non ci sono più gli orti? E comunque non più cavoli? I cicli della natura. 

Natura – Non è ecologica? Sembra – è – scomparsa in questa era ecocompatibile. Non tanto nella flora e nella fauna, accudite come non mai, ma nel rapporto umano. L’ecologia è applicazione asettica anestetizzante.

Psicologia – Un scienza svanita, appena concepita? Quella del profondo messa in crisi dalla psicoanalisi. Quella prenatale dalla riproduzione in vitro. Quella dell’infanzia dal marketing, la commercializzazione.

Riproduzione – La funzione genetica si è ridotta alla riproduzione. Da creativa a riproduttiva. Si era ritenuto che i tratti somatici e del carattere si trasmettessero col seme, e si ritiene tuttora, per una scelta (d’amore, ma non importa), ma ora il seme è indifferente. Anche l’utero – l’humus di coltivazione, il sistema ecologico  – è indifferente. Solo il meccanismo della riproduzione è calcolato: considerato, protetto.

Suicidio È voglia di non lasciarsi fare? Il suicidio è atto assertivo, che si pone a contrasto dell’unico evento comune a tutti gli uomini, la morte, la quale si vuole incerta. Il suicida vorrebbe schivare questa ineluttabilità, rendendola volontaria. Ma la fa doppiamente volontaria: è la famosa servitù volontaria. Né è detto che ci riesca. Il moralista Chamfort, il trovatello divenuto l’“Ercole in forma di Adone” delle nobildame della Reggenza, nonché della corte di Luigi XVI, poi giacobino, quando temette di restare vittima del Terrore si sparò in testa ma si staccò solo il naso e mezza mascella, si tagliò il collo ma non trovò l’aorta, si squarciò il petto ma non trovò il cuore, e quando si recise le vene dei polsi il cameriere lo soccorse, per cui visse altri sette mesi agli arresti domiciliari, con l’onere di pagare la diaria al gendarme. La vita si gioca a rimpiattino con la morte, finché riesce - anche la nascita è evento comune a tutti gli esseri, che altrimenti non sarebbero, e indipendente, così come la morte, dalla volontà del soggetto.
È voglia di eccezione? Comune, giusta, il proprio dell’uomo d’eccellenza, dell’uomo. La morte ugualizzando tutti, il suicidio si prospetta quale marchio di differenza. Ma ha l’effetto di anticipare l’immota uguaglianza: la morte può fare di ognuno un eletto, nelle opere, nel ricordo, mentre il suicidio cristallizza in sé, soverchiando ogni altra sfumatura. Ciò è vero anche in senso metaforico: nessun suicida ha mai cambiato nulla, non l’equivalente del battito di ciglia a Manhattan, del volo di farfalla a Singapore. I letterati suoi simili, gli intellettuali dell’epoca, Chamfort diceva “simili agli asini che scalciano o s’azzuffano davanti a una mangiatoia vuota”. Il suicida rende ineluttabile una morte che, in teoria, potrebbe non venire, per longevità, resurrezione, il modulo più frequente tra le forme di vita, oblio.

“Dove sono cresciuto io”, è uno dei motti celebri di Woody Allen, “a Brooklyn, nessuno si suicidava. Erano tutti troppo infelici”.

Umori –  La diffusione della depressione in tempi di ricchezza senza precedenti (agiatezza, servizi, sicurezza, innovazione) riporterà la medicina alla teoria di Ippocrate degli umori? Oggi più che mai l’assunto basico della sua teoria si conferma, che la salute è una combinazione di elementi e fattori fisici, ma anche di umori e carattere, la somatizzazione è un fatto.
Anche i fattori della “teoria umorale” di Ippocrate si confermano, con qualche sofisticheria in più. I fattori umorali correlati ai quattro elementi, aria, acqua, fuoco e terra: rispettivamente sangue, flegma, bile gialla, bile nera. O del temperamento flemmatico, sanguigno, collerico, malinconico. Il carattere, la tipologia fisica e fisiologica, e conseguentemente la salute, o l’equilibrio psico-fisico, sono diversi per ognuno e correlati, più che alle condizioni esteriori, agli “umori”.

zeulig@antiit.eu

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