In
“questo spirito dell’epoca normativamente in disarmo, totalmente succube degli
imperativi del mercato e dell’autosfruttamento”, che futuro abbiamo, l’Europa
ha? Questa scelta degli ultimi saggi di Habermas, dal vol. XII degli scritti
politici d’occasione (discorsi, articoli, recensioni, polemiche), centrata
sulla crisi dell’Europa, lo vede sempre combattivo. Ma solo perché “indietro
non si può tornare”, non proprio fiducioso. Le sue proposte rispecchiano
altrettante mancanze, di cui non hanno la cogenza, né la forza di persuasione.
Nella
raccolta Leonardo Ceppa, che l’ha curata, ha voluto inserire uno scritto fuori
tema, un saggio su Heine. Che però potrebbe esserne il cuore. Il filosofo vuole
recuperare Heine alla Germania, dirlo finalmente accettato. Dire cioè che la
Germania è il “paese normale”, che pensa democratico, da Heine vagheggiato. Che
per un secolo e oltre per questo l’ha però osteggiato. E la cosa fa senso: un
poeta, uno scrittore che ha innovato la lingua e a cui la lingua si conforma,
che è rifiutato per un secolo e oltre perché sinceramente, tranquillamente, democratico.
Ci vuole più Europa, più politica, è l’appello del primo intervento con cui Ceppa fa esordire Habermas. L’euro ne ha bisogno, poiché non si può più dissolvere, e quindi ogni paese europeo. Sottintesa la Germania.
Ci vuole più Europa, più politica, è l’appello del primo intervento con cui Ceppa fa esordire Habermas. L’euro ne ha bisogno, poiché non si può più dissolvere, e quindi ogni paese europeo. Sottintesa la Germania.
“Tre
ragioni per «più Europa»” dà il filosofo in questo primo intervento: 1) la
Germania in Europa e non la Germania per sé; 2) il ritorno alla politica – “non
era ancora mai successo che governi eletti dal popolo venissero sostituti senza
esitazione da persone direttamente portavoce dei mercati: si pensi a Mario
Monti o a Loukas Papademos”; 3) il salto indifferibile dell’euro a una politica
monetaria (sovranità) comune. Contrariamente all’opinione dominante in Italia
sullo stato attuale della Germania, dei governi Merkel e dell’opinione che esso
conforma, Habermas non si fa illusioni. La sentenza della Corte Costituzionale
del 12 settembre 2012 sull’Esm lo lascia sconcertato: essa oppone il “principio
democratico”, art. 20, 2 dello Statuto costituzionale, al vincolo europeo,
art.23, 1, e lo rafforza con i concetti di “sovranità” e “identità nazionale”,
su cui però lo Statuto “non spende una parola”. “Una politica delle cose” che
si è data “rango di Costituzione”, preciserà Habermas recensendo Streeck,
“Tempo guadagnato” - di cui non condivide l’assunto che siamo fuori della
democrazia ma dandogli ragione nella critica.
Il
presupposto dell’impasse è semplice e
evidente: l’euro non ha neutralizzato, come voleva il progetto “ordoliberale”
alla sua origine, “le differenze di competitività esistenti nelle varie
economie nazionali”. Anzi, le ha aggravate: “Le diseguaglianze strutturali
delle varie economie hanno finito per aggravarsi; e continueranno ancora ad
aggravarsi, finché la politica europea non la farà finita con il principio per
cui ogni Stato nazionale deve decidere sovranamente da solo – senza guardare
agli altri Stati associati – nelle questioni di politica fiscale, di bilancio
ed economica”. L’ottica è rimasta sempre
quella, che gli Stati nazionali sono i “signori dei trattati”. Tra essi, “è il
governo tedesco ad avere in mano le chiavi del destino europeo”, Habermas
conclude, non ottimista.
Ceppa
dà in ultimo un’utile sintesi dell’utopia europea di Habermas, nei termini
della filosofia del diritto invece che della passione politica che sottende a
prima lettura la raccolta. Habermas intende – e in un intervento successivo a
questa raccolta, ancora in via di pubblicazione, lo espliciterebbe - che “il
processo dell’unificazione europea rappresenti, nella storia della teoria
democratica, un nuovo modello di progetto costituzionale. La sua caratteristica
è di non sfociare più in uno Stato centrale unitario (come la Rivoluzione
francese), né in uno Stato federale (come la federazione Usa dei «Federalist
Papers»), bensì in una forma transnazionale,
eterarchica e post-statale di
democrazia”. Ma deve dirlo “un idealistico polemista contro il disfattismo
della ragione”.
Habermas
si occupa ormai solo dell’Europa, da un quarto di secolo, a partire dalla
caduta del Muro con “Dopo l’utopia”, 1991 – sottotitolo “La vecchia Germania
nella nuova Europa?” Sempre con lucidità. Sul nuovo ciclo del debito, per
esempio, oltre che sulla recessione indotta dall’euro, o sul nazionalismo
risorgente: “Nel controllo politico che si volle dare alla globalizzazione economica
finì per prevalere la dottrina della Scuola di Chicago, già messa in atto da
Reagan e Thatcher. La politica dell’inflazione controllata fu sostituita da un
forzato indebitamento pubblico, in quanto non si voleva lasciar travolgere lo
stato sociale a causa dei mercati scatenati… L’onda lunga del crescente
indebitamento statale può essere letta come l’altra faccia delle restrizioni
che il neoliberismo ha imposto alla libertà d’azione degli Stati nazionali”. Ma
con sempre minore convinzione, il suo idealismo copre una mancanza. Forse
ingestibile. Non con le idee – la solidarietà è fuori luogo, la guerra invece
sì. Non cruenta ma sempre rapace.
Jǔrgen
Habermas, Nella spirale tecnocratica,
Laterza, pp. 113 € 15
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