Si deve
a Streeck, sociologo di Colonia della vecchia scuola di Francoforte, la
scoperta che in quest’epoca di
superliberalizzazione gli Stati si sono superindebitati, a beneficio del
mercato. Non di poco: Streeck può calcolarlo nel più grosso trasferimento di
ricchezza della storia, dai poveri ai ricchi. È la chiave del suo recente “Tempo
guadagnato”. Ma forse c’è dell’altro, che lo stesso Streeck aveva anticipato
nel 2011 in questo saggio che non si traduce.
Il “capitalismo democratico” è un’illusione, questo il punto di
partenza. Sembra vetero marxismo, ma Streeck è realista. Si dice che non è un’illusione
perché ha funzionato, seppure per un breve periodo, ne decenni successivi alla
guerra – i “trenta gloriosi” anni successivi al 1945. Ma quella fu un’eccezione,
il capitalismo democratico piuttosto si rappresenta nelle crisi a successione
che alimenta. È il “governo attraverso la crisi”, che più volte è capitato di
segnalare come il dato costante della situazione italiana. Che Streeck
riscontra in Europa, la virtuosa Germania compresa. E ora l’Unione europea. Il pattern è semplice: markets vs. voters, se necessario – quasi sempre.
Una ricerca
e un’analisi dei fondamenti della crisi che faranno testo. Più veri oggi che
tre anni fa. Treeck muove da una critica all’analisi post-shock petrolifero,
metà anni 1970, di tipo keynesiano, che con le regolazioni la politica potesse
tenere sotto controllo le crisi. Al più, si pensava, si poteva avere una crisi
di legittimazione, una sostituzione di orientamenti politici. All’epoca si era al
culmine della regolazione del welfare, del successo della “politica delle
riforme”, Questo sarà il nocciolo di “Tempo guadagnato”, il libro successivo a
questo saggio che ne è anche un rielaborazione.
Poi alle
riforme del welfare succedettero le controriforme liberali. Dando alla parola
riforma il significato opposto: di allentamento dei vincoli negoziali e di deregolamentazione
de mercati. Di quello del lavoro come di quelli dei beni e servizi, e dei capitali.
I quali tornano a essere i padroni in incondizionati del vapore, impadronendosi
pure delle imprese pubbliche, industriali e di servizi, banche comprese, alle
quali impongono l’unico criterio del profitto, ribattezzato shareholder value. Un criterio a cui la politica e ogni società vengono
aggiogate.
Streeck
è pessimista. L’Unione europea non può funzionare spiega, così come non ha
funzionato l’unità d’Italia, per egemonie e compromessi. E l’integrazione, già
difficile in Italia, in Belgio, in Spagna, nell’Europa orientale, non può
presumersi a livello continentale. Ma più di tutto è spaventato: il “metodo
Ackermann”, o fate come dico io o andate in malora, applicato alla politica è
spaventoso. Ackermann è – era all’epoca - il presidente della Deutsche Bank famoso
per voler massimizzato in ogni circostanza il profitto immediato, della sua
banca, senza occuparsi dei danni ambientali.
La conclusone
proposta non è in linea col rigore della ricerca e dell’analisi. Steeck propone
di smantellare la “cupola” bruxellese, per “difendere e recuperare per quanto
possibile” un po’ di giustizia sociale. E tuttavia, come non essere d’accordo:
la democrazia si riduce ad assicurare la propria solvibilità nei confronti dei
creditori, impegnando nel debito anche le generazioni future..
L’ultima
obiezione di Streeck non è però dismissibile, neanche al più accesso
federalista: l’unità marginalizza le culture minoritarie. Già oggi questo è
vero. Non si sono abbastanza denunciati i potersi omologanti, corrosivi, dell’imperialismo.
Che non è tanto un fatto militare ma di modelli e identificazioni. La crisi
dell’Italia è nel riconosciuto, accettata, vantata superiorità del modello
tedesco - senza proporsi di sapere cosa esso sia.
Wolfgang Streeck, The crisis of democratic capitalism, “New Left Review” n. 71 sett.-ott. 2011
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