mercoledì 23 luglio 2014

L’Europa non può funzionare per egemonie e compromessi

Si deve a Streeck, sociologo di Colonia della vecchia scuola di Francoforte, la scoperta che  in quest’epoca di superliberalizzazione gli Stati si sono superindebitati, a beneficio del mercato. Non di poco: Streeck può calcolarlo nel più grosso trasferimento di ricchezza della storia, dai poveri ai ricchi. È la chiave del suo recente “Tempo guadagnato”. Ma forse c’è dell’altro, che lo stesso Streeck aveva anticipato nel 2011 in questo saggio che non si traduce.
Il “capitalismo democratico” è un’illusione, questo il punto di partenza. Sembra vetero marxismo, ma Streeck è realista. Si dice che non è un’illusione perché ha funzionato, seppure per un breve periodo, ne decenni successivi alla guerra – i “trenta gloriosi” anni successivi al 1945. Ma quella fu un’eccezione, il capitalismo democratico piuttosto si rappresenta nelle crisi a successione che alimenta. È il “governo attraverso la crisi”, che più volte è capitato di segnalare come il dato costante della situazione italiana. Che Streeck riscontra in Europa, la virtuosa Germania compresa. E ora l’Unione europea. Il pattern è semplice: markets vs. voters, se necessario – quasi sempre.
Una ricerca e un’analisi dei fondamenti della crisi che faranno testo. Più veri oggi che tre anni fa. Treeck muove da una critica all’analisi post-shock petrolifero, metà anni 1970, di tipo keynesiano, che con le regolazioni la politica potesse tenere sotto controllo le crisi. Al più, si pensava, si poteva avere una crisi di legittimazione, una sostituzione di orientamenti politici. All’epoca si era al culmine della regolazione del welfare, del successo della “politica delle riforme”, Questo sarà il nocciolo di “Tempo guadagnato”, il libro successivo a questo saggio che ne è anche un rielaborazione.
Poi alle riforme del welfare succedettero le controriforme liberali. Dando alla parola riforma il significato opposto: di allentamento dei vincoli negoziali e di deregolamentazione de mercati. Di quello del lavoro come di quelli dei beni e servizi, e dei capitali. I quali tornano a essere i padroni in incondizionati del vapore, impadronendosi pure delle imprese pubbliche, industriali e di servizi, banche comprese, alle quali impongono l’unico criterio del profitto, ribattezzato shareholder value. Un criterio a cui la politica e ogni società vengono aggiogate.
Streeck è pessimista. L’Unione europea non può funzionare spiega, così come non ha funzionato l’unità d’Italia, per egemonie e compromessi. E l’integrazione, già difficile in Italia, in Belgio, in Spagna, nell’Europa orientale, non può presumersi a livello continentale. Ma più di tutto è spaventato: il “metodo Ackermann”, o fate come dico io o andate in malora, applicato alla politica è spaventoso. Ackermann è – era all’epoca - il presidente della Deutsche Bank famoso per voler massimizzato in ogni circostanza il profitto immediato, della sua banca, senza occuparsi dei danni ambientali.
La conclusone proposta non è in linea col rigore della ricerca e dell’analisi. Steeck propone di smantellare la “cupola” bruxellese, per “difendere e recuperare per quanto possibile” un po’ di giustizia sociale. E tuttavia, come non essere d’accordo: la democrazia si riduce ad assicurare la propria solvibilità nei confronti dei creditori, impegnando nel debito anche le generazioni future..
L’ultima obiezione di Streeck non è però dismissibile, neanche al più accesso federalista: l’unità marginalizza le culture minoritarie. Già oggi questo è vero. Non si sono abbastanza denunciati i potersi omologanti, corrosivi, dell’imperialismo. Che non è tanto un fatto militare ma di modelli e identificazioni. La crisi dell’Italia è nel riconosciuto, accettata, vantata superiorità del modello tedesco - senza proporsi di sapere cosa esso sia.
Wolfgang Streeck, The crisis of democratic capitalism, “New Left Review” n. 71 sett.-ott. 2011

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