“«Ortega ci dice che il compito della
filosofia», spiegava il professore alle matricole indifferenti, «è scardinare
metafore morte»”. Mentre “il cammello
sta passando”, già negli anni 1960, seppure “con grande difficoltà, per
la cruna dell’ago”. Con le bombe e contro le bombe. Cronache vecchie, di prima
del Sessantotto, redatte e pubblicate subito dopo, e ancora nuove, in questa
che vuole essere una “riscoperta”. Una scorribanda cosmopolita sul niente. Sulle
abitudini, i linguaggi, gli amori e le amicizie, il lavoro, le conoscenze, i
detti, memorabili e no, e “l’ha da passa’ ‘a nuttata”. Un libro delle
inquietudini. Senza risparmiarsi.
Cosmopolita obbligata, via
da Milano appena nata perché quel genio di Mussolini non ci voleva gli ebrei,
nemmeno a metà, Adler si ritrova incostante ovunque, benché col sorriso. A
scuola, da studente e da discente, al giornale, a casa, in città, in campagna,
a scuola di volo, di cucina, di tennis, di equitazione, di vita e quant’altro,
le persone sole fanno sempre corsi, in vacanza nelle isole, anche in Sardegna, e
perfino da tiratrice - scelta: centra col fucile “scatole di fiammiferi e lattine”.
Un libo di malinconie, aggraziate. Molti eventi sparsi, in mezzo a tante figure
di donne che saranno il modello del nostro femminismo, sperdute, tutte, senza
spessore. In stile “New Yorker”, d cui Adler è stata redattrice e columnist: paradossale e di superficie, insomma
snob. Ma bisogna farsi perdonare quando non si sta bene dove si sta.
Dopo quasi mezzo secolo, del
resto, la raccolta scorre come un freccia, diretta e rapida. Da giornalista, si
schermisce l’autrice, non sa fare le interviste: non sa chiedere. Ma sa
rispondersi. Non disinvolta né superficiale: in un paio di centinaia di reportages brevi e brevissimi fa una
condizione umana. Di una vita giovane (giovanile, curiosa) nella metropoli,
isole lontane incluse e paesi di provincia, in incostanza costante, di condizione,
di desideri, e anche di giudizio. Di un’epoca in cui nulla cambia, sotto un
baluginio vertiginoso di novità. Di propositi. Di impegni. “Io so” si dice già
nelle riunioni di gruppo degli anni 1960, dei morti alla Kent State University,
di altre magagne. Negli stessi anni il college femminile aveva “docenti
prestigiosi in tutte le materie, con alloggi a Nuoro e Micene” – perché
costavano poco? Prendendosi, lasciandosi, senza ragione, nemmeno per caso – per
ubriachezza, per stanchezza, anche controvoglia - “Quando mi chiedo cosa stiamo
facendo – in questo palazzo, in questo isolato, con questo giornale – la verità
è che probabilmente stiamo lottando per sopravvivere”. Con alcune pagine da
antologia. L’innominata Sardegna, benché con cattiveria, la donna sola con
l’amante immaginario, la “vanità morale” del giudice.
Una testimonianza del tempo
vuoto – forse svuotato dall’ironia, che è inattaccabilmente corrosiva. “Al di
fuori dell’umorismo c’è solo l’imbarazzo puro”, sarà la conclusione, “Ahimé”.
La noia. Lo stereotipo. La stupidità. Renata Adler non si annoia e non si
imbarazza.
Renata Adler, Mai ci eravamo annoiati, Mondadori, pp.
191 € 17,50
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