Dio
– Essenzialmente è scrittore. È legato
alla scrittura. Il Dio unico – esclusivo e geloso – di Mosè è uno che si rivela
nella scrittura. “Dio è l’autore delle
Sacre Scritture”, dice il nuovo Catechismo. La contemporaneità non ha bisogno di
temerlo, che fa a meno della scrittura e dell’autore.
Morirà con la scrittura – sta morendo
ora, che la scrittura si rarefa - oppure la scrittura diventerà immortale?
È smemorato, seconda la gallina filosofa
di Malerba (“Le galline pensierose”), perché ha dimenticato proprio le galline,
tra i tantissimi animali con cui ha riempito l’Arca, quello più utile. Questo
può spiegare perché a volte non c’è – non c’era ad Auschwitz, etc.
Oppure è un soccorritore. Sta lì a
impedire che l’uomo di distrugga, tanto è stupodi per la pretesa di essere
intelligente. “Se continueremo a commettere ingiustizie, Dio ci lascerà senza
la musica”, il cardinale Ravasi fa dire a Cassiodoro.
Dio è musica non è male. Anche
dissonante.
Feticismo
–
Una digitazione errata su google dà 276 pagine di fétichisme, la traduzione francese.
È l’unica locuzione che oggi distingue
le vere religioni dalle posticce, anche se non si legapiù al concetto antropologico
di primitivo.
S.Agostino, “Locutiones in Pentateucum,
2, 138 usa, come sinonimo di simulacra, l’espressione
facticii dei.
Chatwin
faceva ancora grande caso del “feticcio”. Ma pure Bettini , nel recente “Elogio
del politeismo”, 109. In latino è factitius,
fabbricato, “in contrapposizione a ciò che è «naturale», annota il filologo.
Nelle lingue romanze la parola subì vari adattamenti, tra cui il portoghese feitiço – “passato a indicare ciò che è
«artificiale», nel senso di ciò che è stato realizzato tramite la magia”. Feitiço, ossia “artefatto magico,
stregonesco”, fu poi usato nel ‘500 in Portogallo per designare i manufatti del
Benin, nel golfo di Guinea. Qualcosa che aveva manteneva il carattere originario
di soprannaturale, ma caricato di tinte stregonesche. Feiticeiro è in portoghese lo stregone – in analogia con l’italiano
“fattucchiera”. Consacrato, nella traduzione francese fétiche, assortita di fétichisme
e fétichiste, dal presidente des Brosses
a metà Settecento per designare le religioni primitive, nell’ambito del
concetto di primitivo che si veniva sviluppando, come quelle che adoravano cose
e animali. Una degradazione, argomenta Bettini, come tante altre, della
religione “diversa” dalla nostra. Come tale Hegel la recepirà: una religione
per poveri negri. Comte la alleggerirà
soltanto, facendone una tappa attraverso cui tutti i popoli passano – alcuni
prima, altri dopo.
È Des Brosses, che si può dirne il primo
studioso, 1760, “Culte ds Dieux Fétiches, ou Parallèle d l’ancienne Religion de
l’Egypte avec la Religion actuelle de Nigritie”, 1760, che lo elabora in senso
religioso, per “il culto, forse non meno
antico del culto degli astri, di taluni oggetti materiali chiamati feticci dai
negri africani”: “Chiamerò questo culto feticismo. Anche se nel suo contesto
originario esso riguarda le credenze dei negri, intendo usarlo per ogni nazione
i cui oggetti sacri siano animali o cose inanimate dotate di qualche virtù
divina”. Che esemplifica in statue, pietre, alberi, bastoni, conchiglie, una
vacca, una coda di leone, il mare stesso.
Freud lo sublimerà nel rimosso: “Il
feticcio è un surrogato del fallo della madre da cui il bambino non vuole
staccarsi”. Uno dei tanti surrogati – sempre del fallo della madre: “Questi
surrogati possono essere utilmente paragonati ai feticci in cui il selvaggio
incarna il suo dio”-
Somatismo
–
È la relazione più nomale, scontata, dell’anima col corpo, delle pulsioni
emotive e anche intellettuali con la fisologia. Anche le “virtù morali” o
naturali non si possono pensare disgiunte dal corpo.
Stupidità
–
La più pericolosa è quella intelligente: dei condottieri, i conquistatori.
Suicidio – Montesquieu lo
spiega in termini moderni, dopo aver fatto nello “Spirito delle leggi” il
confronto tra i romani, che “non si toglievano la vita senza un motivo”, e gli
inglesi, che invece si uccidono “senza una ragione, si uccidono perfino in
piena felicità”. È per il benessere, cui consegue “un difetto di filtrazione
dei succhi nervosi: l’organismo, le cui forze motrici divengono inattive, è
stanco di sé”. Spiega Montesquieu: “L’anima non sente il dolore, ma una certa
difficoltà di esistere. Il dolore è un male locale che ci porta al desiderio di
vederlo cessare: il peso della vita è un male che non ha sede particolare e ci
porta al desiderio di veder finire la vita”. Bisogna avere l’anima.
Un
capitolo non a parte nella storia dei suicidi è l’Uticense, l’incorruttibile
che annodò una serie abnorme di coincidenze, paradigma della storia, se essa è
da intendersi una serie di reti neuronali. Catone il giovane, figlio e nipote
di catoni, che morì a Utica, nei pressi di quella Cartagine che suo nonno
Catone il Censore aveva voluto distrutta. Morì in difesa della repubblica dai
tiranni e i concussori. Dopo aver combattuto Spartaco, la rivolta dei seimila schiavi
crocefissi lungo la via Appia dal concussore Crasso. E aver voluto e ottenuto,
contro il cesarista Cesare, la pena di morte per Catilina e i suoi rivoluzionari.
Finì sconfitto dai soldati di Cesare, che era stato giovane amante di sua
sorella Servilia, la madre di Marco Giunio Bruto, il futuro cesaricida.
Un’altra Servilia, figlia d’un fratello di Catone, sposata a Lucullo, aveva
scandalizzato il pur libertino marito al punto da farsene ripudiare. La sua
propria moglie Marzia l’Uticense incorruttibile aveva invece prestato incinta
al ricco amico Quinto Ortensio, che voleva un figlio, riprendendosela dotata
alla morte di quest’ultimo. Morì facendo harakiri,
dopo aver letto il Fedone con gli
amici. Ricucito, riaprì la ferita, si strappò le viscere e le spezzettò perché
i chirurghi non potessero ricomporle: non ne poteva più di se stesso. Sua
figlia Porzia, che Ortensio aveva chiesto in prima istanza a Catone come moglie
a tempo, lascerà il marito Bibulo per il cugino Bruto, il cesaricida, e si ucciderà
ingoiando carboni accesi, i parenti avendole sottratto ogni altro mezzo. È inutile indignarsi di fronte al cinico. La virtù può far
male.
Tolleranza
–
È molto equivocata. Più di tutti da Bettini,
“Elogio del politeismo”, 129: “Nasce
solo nell’ambito della cultura cristiana a partire dal V secolo”. Ma poi lui stesso spiega che l’intolleranza non
nasce con le religioni monoteiste. Anzi, le persecuzioni anticristiane non sono
eccezionali come sembrano. Sono in linea con le persecuzioni che, per vari
motivi, si erano applicate e si applicavano ai culti di Iside, Serapide e
Bellone, e contro i Bacchanalia. Contro culti che si presume possano incitare
ai disordini politici – “congiure, sedizioni, associazioni illecite” (Mecenate
ad Augusto). La cosa si è riprodotta, per esempio, nel Sette-Ottocento in Giappone,
dove i cristiani furono sospettati di tramare contro il culto dell’imperatore.
Più risolutivo il dibattito tra Ambrogio,
vescovo di Milano e poi santo, e il prefetto di Roma Simmaco sul diritto di esporre
la statua della Vittoria in Senato, nella ricostruzione che Massimo Cacciari ne
ha fatto nel 2006, “La maschera della tolleranza”. “Non si può giungere in un solo
modo al mistero di Dio”, dice cristianamente Simmaco. A cui il santo vescovo
obietta con l’intolleranza.
Ma è il concetto in sé che è equivoco,
evocando l’idea di un potere maggiore che ne accetta, limitatamente, uno min
ore. Meglio della tolleranza è il riconoscimento, come è giunta da ultima a
fare la chiesa di Roma, che è in qualche modo anche un’adozione, dei riti esterni
e infine delle verità. Non si può fare altrimenti differenza “tra un altare e
un altro” - Cacciari - o “tra chi crede in Dio e chi si interroga sul Dio
ignoto”.
Vomito – È tema
vergine alla riflessione, la revulsione intestinale. Una forme il più delle
volte dell’incontrollabile somatizzazione. Non essendo una funzione corporale, come
digerire, defecare. Ovvero sì, ma a forte componente nervosa. Del corpo che non
si governa per leggi proprie (dipendenze, affinità, rifiuti), ma è soggetto a
impulsi incontrollabili e non motivati, se non per un movimento dell’animo,
irriflesso.
zeulig@antiit.eu
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