Un polpettone. L’autore-detective,
roso dall’alcol e dal diabete, insegue con dispendio di pallottole e sangue il
capomafia Joe Black per il manoscritto della “Divina Commedia”. È caccia grossa,
tra New York, Palermo, Venezia. Non fosse per Dante: l’uomo dell’ideale si
rivela incerto, creativamente bloccato dalla scelta della terza rima, e quasi
uno scolaretto a scuola di un imperscrutabile cabalista ebreo. Un pretesto per
dire infine molte cose: il poligrafo Tosches
vuole infine sanzionare le cose di cui sa: il libro, l’editoria, Dante
stesso, di cui è cultore, gli albanesi d’Italia, etnia cui appartiene, da Casalvecchio
di Puglia, Marziale, la cabala, e ogni altro argomento incidentale.
A suo modo italianista, specialista
di Sindona, oltre che di Dante, di Dino (Dean Martin) e di Cosa Nostra (in
guerra con le Triadi cinesi), il vecchio reporter di “Rolling Stone”, quando la
rivista faceva reportage d’autore, quarant’anni fa, si concede ogni licenza. Il
rapporto con i libri è la lussuria dei celibi – è il sostituto della carne, è
un rapporto sensoriale. A questo mondo ci sono soltanto due tipi di persone:
gli italiani e quelli che vorrebbero esserlo.
Nick Tosches, La mano di Dante
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