Due storie
assembla Pirandello, e un personaggio e mezzo. La prima storia è di Roma primo
Novecento, pettegola, apatica, insieme inetta e divoratrice. La seconda è della
Val di Susa – sì, c’era già un romanzo della Val di Susa ideale (i biografi non
sanno dire che Pirandello ci sia mai stato) un secolo fa. O della “sana” vita
provinciale e agreste, probabile trasposizione dell’infanzia e l’adolescenza
dell’autore sotto la Valle de Templi ad Agrigento, sia pure con le ipocrisie e
i conformismi del Piemonte. Il personaggio è il marito di una moglie
scrittrice, che con lei è venuto dalla provincia a Roma per sostenerne il
successo. L’altro personaggio, sfocato, è la scrittrice stessa, che si rifiuta
al ruolo di moglie.
Titolo infelice
di un romanzo trascurato, per primo dall’autore. E tuttavia storicamente
interessante, su Roma e l’Italia alla vigilia dell’impero, in Libia e oltre,
sul tipo della scrittrice, la donna che irrompe da protagonista nel mondo delle
lettere (Grazia Deledda, o forse Sibilla Aleramo), e sulla coppia o il
matrimonio, il rapporto familiare lui-lei che sarà tanta parte delle “Novelle”,
invece ottime, e del teatro di Pirandello.
L’originale,
intitolato “Suo marito”, fu concepito da Pirandello come una satira del marito
di Grazia Deledda. La quale era in effetti venuta dalla Sardegna a Roma, per
liberarsi dell’etichetta di scrittrice sarda, con un marito come il Giustino
del romanzo, anche se senza diventare l’amante del suo potente patrono
letterario e politico della capitale – il senatore Ruggero Bonghi. Più dubbio è
alla rilettura che il personaggio di lei, Silvia, sia modellato su Grazia
Deledda: il modello era persona socialmente schiva, mentre Silvia è una che,
seppure con riserva d’autore, creativa, capace, ci marcia.
Silvia resta
sullo sfondo del romanzo, ma tutto il contorno, l’amante importante, il figlio
rifiutato, con la famiglia, il carrierismo, la separazione, rinvia, più che a
Deledda, a Rina Faccio, alias Sibilla Aleramo. Inconsciamente, è probabile, ma
è su questa che Pirandello modella la scrittrice: Sibila era e si voleva
personaggio femminista, e scandalistico, a differenza di Deledda. Era milanese
e non provinciale, ma abbondantemente provincializzata, nell’adolescenza e la
prima giovinezza. Nonché “creata” a Roma dal compagno Giovanni Cena, su cui in
tutto l’amante di Silvia nel romanzo, Maurizio Gueli, è ricalcato, come autrice
di successo e nello stesso pseudonimo, tratto da Carducci.
Ma il marito è
quello di Deledda. Deledda si urtò, e Pirandello ritirò il romanzo. Lo riprese
nel 1931, per migliorarne la scrittura, ma s’interruppe al quinto capitolo, a
metà circa. L’edizione corrente è apprestata dal figlio Stefano. Resta un libro umoristico, e per questo mediocre,
nell’insieme dell’opera di Pirandello. Lo si fa rientrare nella misoginia di
Pirandello, che invece non era misogino. Più, semmai, dovrebbe rientrare nell’antipatia
di Pirandello verso i padri, a partire dal suo proprio, e quindi verso i mariti
– Pirandello ha costante, in tutta l’opera, una visione postmoderna nel senso
comune, postfemminista, del matrimonio e la coppia. Giustino Roncella è uno che
vive all’ombra della moglie, Roncella è il cognome della moglie. Una storia mediocre
oggi forse perché troppo comune, nel femminismo d’ordinanza. Non fa ridere
cioè, e nemmeno piangere. Sciatta anche, nella revisione – non risolta,
ambigua.
La storia originale invece era di femminismo
sincero: Pirandello aveva riconosciuto le qualità di Grazia Deledda fin
dall’esordio vent’anni prima. Sulla sua consistenza aveva creato il
marito-saprofita, il marito rinominato dalla moglie. Ne scriveva così il 18 dicembre 1908 a Ugo Ojetti: «Manderò pure al Treves, spero
in aprile, il romanzo «Suo marito».
Son partito dal marito di Grazia Deledda. Lo conosci? Che capolavoro, Ugo mio!
Dico, il marito di Grazia Deledda, intendiamoci…” – Ojetti, il principe allora
delle lettere, non apprezzava Deledda e Pirandello si cautelava. Il personaggio
della “giovane e illustre” scrittrice,
tuttavia, Pirandello lasciò sullo sfondo, anzi caricandola aneddoticamente di
una personalità altra. Un altro modo di esprimere la sua ammirazione, cioè, di
non coinvolgere lei nello sberleffo, che è invece mirato sul marito e la
società romana. Contro lo scetticismo, e anzi
l’irrisione, di Ojetti attribuendole anche la trama di un “dramma di grande
successo”, “L’isola nuova”, che
poi Pirandello riprenderà in “La nuova colonia”. Il dramma è una “tragedia
selvaggia”, dice ammirativamente in “Suo marito”, che fa rivivere Medea in
“un’isoletta del Jonio, feracissima, già luogo di pena di reietti”, prostitute
e barboni, “abbandonata dopo un disastro tellurico…”. Nuovi vincoli vi si
formano, un po’ come in Grecia si creavano i miti, basati sulla maternità e la
fedeltà, il cui tradimento merita la morte, come avverrà con Medea e i figli.
L’ultima edizione si segnala per
essere stata curata quarant’anni fa, negli Oscar, nella Biblioteca dei Classici
Italiani diretta da Giuseppe Bonghi!, da Corrado Simioni, lo studioso che le
cronache avrebbero poi voluto a capo di una struttura terrorista, o
antiterrorista, quale sarebbe stata una sua scuola di lingue a Parigi, Hypérion.
Una storia infetta, da emigrati politici – quelli di Parigi sono sempre stati
infiltrati, rissosi. O di invidia per la sua compagna, nipote dell’Abbé Pierre
– una piccola copia del “Giustino Roncella”?
Luigi Pirandello, Giustino Roncella nato Boggiòlo
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