Per un Rinascimento che, a differenza di quello storico,
non cada nell’errore di mettere lo spirito greco in antitesi col cristianesimo.
Un’ubbia? Oggi sì: con la chiesa allineata al puritanesimo, non c’è altro
cristianesimo se non negatore di ogni tradizione (si
fa un revival delle radici ellenistiche del cristianesimo, curiosamente,
proprio mentre la chiesa di Roma si spoglia di ogni concezione del sacro –
rito, mito, intermediazione). Ma ancora oggi, rileggendola,
Simone Weil è convincente. È anzi, di tutta la sua riflessione, il punto più
solido. Con tanto parlare che si va facendo sul recupero del paganesimo in
antitesi alla religione, alle religioni del Dio unico, Simone Weil sa argomentare
il contrario, l’unità di Cristo e di Grecia – e per essa di Platone. Era
un’idea del resto anteriore allo stesso Rinascimento, chiaramente formulata da
Meister Eckhart, non uno sconosciuto anche se da qualche tempo trascurato: i
pagani conobbero la verità prima dei cristiani, i sapienti greci, cioè la
stessa verità, dell’anima del mondo. Al di sotto delle cose, dei fenomeni.
“La storia greca ha inizio con un crimine atroce,
la distruzione di Troia. Lungi dal gloriarsene, come fanno di solito le nazioni,
i Greci sono stati assillati dal ricordo di quel crimine come da un rimorso”.
Questo non si trova ne “L’«Iliade» e il problema della forza”, lo studio forse
più famoso di Simone Weil che apre la silloge, ma è l’attacco del successivo
“Dio in Platone”: “Vi hanno attinto il sentimento della miseria umana. Nessun
popolo ha espresso al pari di quello greco l’amarezza della miseria umana”. È
in queste due proposizioni il senso dell’“Iliade” come il poema della forza:
per la “subordinazione” che il poema rappresenta “dell’anima umana alla forza,
vale a dire, in fin dei conti, alla materia”.
Col commento all’“Iliade”, e gran parte dei
frammenti di Eraclito ritradotti, la silloge si compone di diversi approcci di
trattazione di Platone. Ambiziosi questi, per una sorta di procedimento
mimetico, volto a ricostituire Platone su Platone, anche stile argomentativo,
quasi un calco, per una sorta di immedesimazione medianica. “La volontà di
assumere e comprendere come un tutt’uno l’universo greco”, così Giancarlo Gaeta
condensa l’impresa: “culti misterici, pitagorismo, i Presocratici, i tragici,
Platone; e quello cristiano: i Vangeli, Paolo, l’«Apocalisse»”. O “la
sostanziale comunanza tra le due forme di religione per quanto concerne non
solo l’antropologia ma la teologia stessa, e di conseguenza la concezione
salvifica”. Una missione impervia ma gratificante, e non meno vera,
storicamente di altre. Simone Weil rompe il nesso giudaismo-cristianesimo, di
questo affondando le radici nell’“insuperato” mondo greco. Opinabile, ma perché
no. La sua rilettura di Platone, trascurata nei tanti revival, specie dal “pensiero debole”, è la più
feconda. Le confuse riproposte del paganesimo, in questo 2014, vi si
rischiarano.
Con un apparato notevolissimo di Maria Concetta
Sala e Giancarlo Gaeta. E la rilettura giusta, rispetto a quella di Mario
Attilio Levi, della “forza” che Simone Weil celebra nell’“Iliade”. Che invece
dice il poema, unico, dei vincitori e insieme dei vinti. E quindi di Dio in
terra: “È impossibile”, annota nei “Quaderni”, IV, p. 186 dell’edizione
Adelphi, “comprendere e amare insieme i vincitori e i vinti, come fa l’«Iliade»,
se non dal luogo, situato fuori dal mondo, in cui risiede la Saggezza di Dio”. È
la scoperta delle comune sottomissione umana, dell’irregolare Achille compreso,
alla necessità. Da cui la virtù per eccellenza, dice Simone Weil, l’umiltà – che è anch’essa di Meister Eckhart:
umiltà non come modestia o devozione, ma come scienza, atto del sapere. Dell’“Iliade”
come – è quello che accomuna il saggio alle letture di Platone - del
cristianesimo: il dolore comune nella disgrazia, l’eguaglianza si potrebbe dire
nel bisogno, sarà dei Vangeli.
Opportunamente
titolata, questa riproposizione di scritti ormai quasi centenari, nel millennio
che si muove come un burattino senza fili, in superficie, è un tributo
commovente. Commovente perché funebre. È come il canto di una prefica, sia pure
nobile e ispirato, a un catafalco, per quanto sontuoso. L’ennesimo della serie
di eutanasie che l’Europa sta perpetrando dei suoi lari, o delle sue, direbbe
Simone Weil, radici: la latinità, il cristianesimo, l’umanesimo. L’aggressione
alla Grecia del debito è solo un’espressione di questa violenta mutilazione.
Dopo aver tentato di conformarsela secondo criteri eugenetici, al principio
della superiorità, razziale, semantica, filosofica, economica. E ultimamente, dopo
che la Greca classica, dopo quella vivente, era stata anch’essa sradicata: l‘Europa,
fallita l’appropriazione della grecità, la reincarnazione della Grecia nella
Germania, non vuole radici, siano pure decorose e inoffensive. Un continente
mobile si vuole, nomade, giacché questa era la natura della sua parte
continentale. Con violenza altrettanto nomadica tutto sradicando, la latinità,
la cristianità, la grecità e ogni altro eredità che non sia la forza bruta –
economica, ma d’impianto militare, bellicosa.
Simone
Weil non è sola. Drury, “Conversazioni e ricordi”, con Wittgenstein, dice
(p.22) che il suo mentore gli ha insegnato a “comprendere Platone”. In un particolare
aspetto: nella continuità col pensiero e la religione cristiana – mentre prima
lo riteneva del tutto alieno (“quando Platone parla degli dei, gli manca quel
senso di timore reverenziale che si avverte nella Bibbia, dal Genesi all’Apocalisse”).
Ma è isolata, e anzi remota.
Il
lettore si consolerà con la filologia, che la giovane Weil possedeva in grado
eccellente. Un Sofocle “unico”, unico tragediografo. Una traduzione integrale,
con molte varianti, di Eraclito. La “forza” dell’“Iliade” reinterpretata come
condizione umana, dei vincitori e dei vinti. E Platone, o l’ideale comunanza
della cristianità col “mondo greco”. Ancora non è proibito pensare in proprio. Anzi,
la lettura è tonificante per la sua inattualità – si parla di Grecia perché ha
resistito alla Germania?
Simone
Weil, La rivelazione greca, Adelphi, pp. 489 € 28
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